Il disegno sistematico della legge fallimentare, quello approssimativo tracciato nel codice, lo schizzo costituito dagli ultimi interventi di riforma, ci mostrano, tutti insieme, alcune linee essenziali di un grande albero, vecchio di quasi otto secoli, giacché nacque insieme alla Rivoluzione commerciale.
Il tronco è tuttora costituito dalla procedura di fallimento (benché quel termine sia stato espunto dall’uso legislativo). Vi sono poi rami divaria età e dimensione, che si irradiano dal tronco a formare una folta chioma. Quei fitti rami sono costituiti da istituti diversi, alcuni dei quali un tempo si chiamavano procedure concorsuali minori.
Qualche istituto ha natura contrattuale, e nonostante la legge se ne sia disinteressata per secoli, si tratta dei rami più vecchi: che crescevano nonostante il tentativo dei legislatori di frenarli con severe potature; erano infatti resi rigogliosi da quel formidabile concime che nel mondo del diritto è la prassi. Di cui, alla fine (da un paio di decenni), il legislatore ha preso atto e su cui, negli ultimi tempi, legifera a ripetizione.
Nei primi secoli di vita l’albero consisteva nella sua interezza nel fallimento: non solo in quella procedura, che inglobava il concordato successivo al fallimento, ma anche nelle intese informali intorno al fallimento (che avevano ragion d’essere proprio rispetto al fallimento). Il protagonista assoluto di quel diritto era l’imprenditore insolvente, che si confrontava con i creditori insoddisfatti.
Soltanto l’emersione dell’impresa determinò un arricchimento della prospettiva; da quel momento (coincidente con l’avvento della Rivoluzione industriale) fu più facile distinguere l’insolvenza del commerciante dall’insolvenza civile: che emerse all’attenzione anche degli ordinamenti più distratti. Sempre da quel momento, iniziarono ad emergere le prime preoccupazioni per un diritto positivo che tenesse conto della realtà delle imprese.
Ancora oggi quel vecchissimo tronco è ben radicato al suolo e tutto ciò che ha il sapore della novità si risolve immancabilmente in nuovi rami, che si espandono da esso nel cielo: fino a giungere, oggi, alle varie composizioni assistite e negoziali e al concordato preventivo semplificato.
Se guardiamo alla struttura del codice della crisi e dell’insolvenza, ci accorgiamo facilmente che essa poggia sulla procedura di liquidazione giudiziale. Se consideriamo le minute regole di quella procedura, ci accorgiamo che derivano strettamente dal diritto positivo tradizionale.
Tuttora il concetto fondamentale della nostra materia è nell’insolvenza. Più esattamente, nella cosiddetta insolvenza commerciale, o imprenditoriale; infatti la stessa insolvenza civile, pur indicata con il termine ‘sovraindebitamento’, è stata abbastanza assorbita nella concettualità della prima (che ha una cifra essenzialmente finanziaria).
Se dividessimo idealmente il codice in due parti, la prima dedicata agli istituti della ristrutturazione e la seconda agli istituti della liquidazione, potremmo affermare che la prima parte del codice è scritta per evitare l’applicazione della seconda.
Gli istituti dell’allerta (ripetutamente assoggettati a una sospensione sull’entrata in vigore, che forse non avverrà mai), dei contratti sull’insolvenza, dei concordati preventivi, del concordato minore, del piano del consumatore, trovano la loro ragione di fondo nello scongiurare le procedure di liquidazione (infatti accanto alla liquidazione giudiziale oggi c'è la liquidazione controllata del debitore sovraindebitato, che seppure in modo semplificato, ne replica la fisionomia).
Al fondo del diritto dell’insolvenza resta l’atavica paura del fallimento.
Come mostrano più di tutte le discipline del concordato preventivo e delle esenzioni degli atti dalle azioni revocatorie, le discipline della ristrutturazione presuppongono le regole del fallimento: che mitigano e a cui reagiscono.
Allora probabilmente il codice non poteva essere, nonostante ogni buona volontà, molto diverso da come già ci appare e sembra che sarà una volta operati gli ultimi ritocchi dalla commissione di riforma. IL diritto non è mai nell’invenzione di un gruppetto di esperti; è invece una realtà immanente nella società civile che non si lascia assoggettare docilmente aalle mode del pensiero.
Al codice potremmo rimproverare un po’ di approssimazione tecnica; la tendenza alla prolissità e ad eccedere in inutili regole di dettaglio; la velleità di predisporre una normazione che soddisfi aprioristicamente tutti i casi che si presenteranno. Insomma, anche in questo caso potremmo rimproverare al legislatore una certa vanità mista ad approssimazione. Ma non altro.
Non potremmo infatti rimproverargli fondatamente una qualche mancanza di inventiva, che ci impedisce di segare il vecchio tronco alla radice per piantare un nuovo albero ricco di promesse.
Infatti, non possiamo prescindere dall’idea di fallimento senza perdere la stessa storia del nostro diritto e con essa quel diritto stesso.
L’insistere sulle suggestioni della vecchia idea di fallimento, nonostante ogni sforzo apparentemente contrario (come sono gli interventi lessicali), è infatti inevitabile, perché è richiesto dalla stessa dinamica evolutiva del diritto.
La riflessione deve accompagnarsi alla tradizione per comprenderla, farla reagire con i problemi di un mondo nuovo e farla evolvere secondo le esigenze di quel mondo. Impresa per niente facile né affidabile al lavoro di pochi esperti. Spetta invece a tutti noi, che a vario titolo pratichiamo quel diritto, o ne subiamo l’applicazione, di fare la nostra parte.
Qualcuno scrive le leggi; giudici, avvocati, commercialisti le applicano ai casi della vita; gli imprenditori si orientano di conseguenza e lo stesso fanno i consumatori. Dappertutto si infittiscono le prassi: giurisprudenziali, giudiziarie (amministrative), imprenditoriali.
Il diritto evolve lentamente dietro questa spinta collettiva, che nessuno potrebbe controllare, affermando un ordine spontaneo e oltremodo complesso da comprendere e gestire.
Ecco perché nessuno ha mai l’ultima parola, e tantomeno il legislatore.