Editoriali

Crisi d'impresa 18.07.2022

Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Un banco di prova per noi

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La lavorazione del codice è stata lunga e tormentata. A partire dalla legge delega del 2017 si sono succeduti gruppi di lavoro, commissioni di esperti, tre ministri della giustizia: sempre con idee non collimanti (se non molto diverse) su questa materia così delicata per il diritto, per l’economia, per la società intera.

 

Preoccupazioni di tenuta delle imprese in un quadro economico generale fiaccato dalla pandemia sconsigliarono l’entrata in vigore secondo le previsioni: nel 2021. Questo fatto ha consentito di rielaborare ulteriormente il testo normativo, così da adeguarlo anche alla direttiva europea del 2019, sui quadri di ristrutturazione preventiva.

 

Ma oggi il codice entra in vigore mentre la pandemia è ancora in corso, divampa la guerra di aggressione in Ucraina, la difficoltà del contesto economico si intensifica e il governo Draghi vive una gravissima crisi.

 

Nonostante ogni precauzione, non vi era spazio politico per un nuovo rinvio: ne sarebbe stata irreversibilmente danneggiata la stessa credibilità dell’iniziativa. Eppure, per le regole sopraggiunte non sarebbe stato ipotizzabile un più difficile banco di prova.

 

Benché non tutti se ne avvedano, ogni nuova legge che ristabilisce uno dei settori principali del diritto privato, determina come dicevo un impatto sull’intera società civile. Ma a risentirne acutamente sono proprio gli esperti della materia, chiamati ad adeguare il proprio abito mentale. C’è disagio per quanto non conosciamo; fastidio per una tecnica redazionale modesta; disappunto per un testo normativo che raddoppia spesso a vuoto quello, ormai classico, della vecchia legge fallimentare.

 

C’è, davanti a noi, un diritto positivo abbastanza sconosciuto: imposto dalla necessità economica, fatto di istituti ancora grezzi, privo di una solida base concettuale.

 

Il codice è incardinato sul ‘diritto delle ristrutturazioni del debito e dell’impresa’, a cui è dedicata quella che potremmo idealmente concepire come ‘la prima parte’. Sta qui il principale sforzo, imposto anche dal legislatore europeo. Le fattispecie contrattuali sono state ampiamente rivisitate; è comparso un istituto nuovo di zecca sulla trattativa guidata: la composizione negoziata della crisi; sono infine stati introdotti istituti molto problematici, in bilico tra il contratto e il concordato (gli accodi di ristrutturazione ad efficacia estesa, il piano di ristrutturazione omologabile).

 

Ristrutturare significa accogliere una sfida, moltiplicare i sacrifici economici in intensità e distribuzione, ridimensionare settori portanti del diritto privato (come quello della responsabilità patrimoniale e delle garanzie). I creditori sono chiamati a condividere un severo rischio d’impresa (connesso al successo delle pianificazioni di ritorno al valore). Alle aziende di credito e alla Banca d’Italia è chiesto di rimeditare i propri assunti, sostituendone il presupposto: al trattamento del credito impagato deve infatti subentrare il dialogo con il debitore in insolvenza.

 

L’offerta normativa è amplissima, e può essere disorientante. Come scegliere opportunamente tra un accordo su piano attestato, uno dei diversi contratti omologabili, un piano di ristrutturazione o un concordato preventivo?

 

I criteri del passato guideranno per qualche tempo queste scelte, di solito prese con l’obiettivo di contenere il più possibile l’iniziativa dei creditori e di paralizzare la decisione del tribunale. Presto comprenderemo che non è quella la via: perché i creditori sono sempre protagonisti delle operazioni che hanno successo, le quali non possono prescindere dall’apporto sapiente del giudice.

 

Il fatto è che il diritto delle ristrutturazioni non è stato ancora adeguatamente pensato e razionalizzato, e di questo ha risentito anche il diritto positivo immaginato nel codice. Spesso fatichiamo a distinguere società e centro di produzione; crisi dell’attività economica e insolvenza del soggetto giuridico; ristrutturazione del debito e ristrutturazione dell’attività economica; il concetto di continuità aziendale non ha ancora un preciso statuto giuridico.

 

Ecco, allora, un importante banco di prova.

 

Spinto dalla necessità, anche di adeguare un diritto inadeguato ai nuovi assetti europei, il legislatore ha superato in fantasia i giuristi. Ma spetta a loro ricomporre il quadro: fatto di una disciplina ridondante ma anche lacunosa, e in ogni caso frammentaria. Il tempo in cui sono chiamati a farlo, come vediamo, ingigantisce le difficoltà dell’impresa.

 

Saremo sufficientemente umili per questo tentativo? Sapremo schivare le false certezze suscitate non dalla conoscenza ma dall’ignoranza del nuovo diritto? Riusciremo a rinnovare le nostre domande sul diritto dell’insolvenza rinunciando alle comode risposte che provengono dall’esperienza del passato? Ci persuaderemo a studiare, con umiltà, la struttura portante del nuovo diritto, quasi tornando, come serve, sui banchi dell’università?

 

E poi, su un altro piano, riusciremo a persuadere gli imprenditori coinvolti nelle crisi su questi nuovi assetti, sui rischi delle scelte avventate e sulle opportunità delle scelte responsabili? Riusciremo in questa difficile impresa anche con i creditori, aziende creditizie in testa?

 

Infine, e per tutto questo, riusciremo a scongiurare il più possibile il guasto dell’insolvenza irreversibile che distrugge ricchezza e progetti di vita?

 

La magistratura si è organizzata responsabilmente in un complesso processo di formazione di giudici e pubblici ministeri, affidato alla Scuola superiore della magistratura. Dovremmo attenderci eguale impegno di mezzi e persone da parte degli organismi di rappresentanza professionale: in primo luogo i consigli nazionali. Senza trascurare le camere di commercio e le associazioni di imprese (compresa ABI), chiamate a una delicata opera di sensibilizzazione dei ceti imprenditoriali (e delle banche).

 

Se fallissimo nel tentativo, cadremmo, possiamo dire, nella 'seconda parte' del codice, destinata alle procedure concorsuali di liquidazione: tutte pensate e disciplinate sul tronco secolare del fallimento, di cui il codice tace il nome riaffermandone tuttavia le regole di fondo.

 

In caso di insuccesso, la crisi economica non sarebbe arginata, e sboccerebbe ancora di più nei suoi frutti velenosi: non solo economici, ma anche politici e sociali. Come del resto sta già accadendo nel deficit di razionalità che investe le massime istituzioni del Paese.

 

Ecco perché, cari professori magistrati e professionisti, questo è innanzitutto il tempo del nostro impegno.

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