1. L'obiettivo critico di questa chiosa è limitato alla ultima parte (i paragrafi 9 e 10) della “Relazione tematica” n. 56 del 14 luglio 2020, della quale pur si ammira la chiarezza e la accuratezza non disgiunte da encomiabile sintesi nell'esaminare una materia magmatica ed estremamente dibattuta ben prima del Covid e che il Covid ha reso ancor più magmatica ed importante.
L'Ufficio del Massimario aveva già prodotto analoga Relazione avente ad oggetto i dubbi interpretativi insorti circa la normativa emergenziale concernente il processo civile (“Relazione su novità normative” n. 28 seguita da una “Integrazione” n. 37, entrambe in www.cortedicassazione.it). Di tale Relazione “processuale” avevo a suo tempo pienamente apprezzato, oltre che forma e metodo, anche la sostanza tutta intesa a sgomberare il campo nel modo più semplice e ragionevole da equivoci per vero quasi sempre solo apparenti circa sospensioni, termini ecc... Ma eravamo per forza di cose nella bassa cucina procedurale.
Quella ove si aggira la presente Relazione “sostanziale” è invece alta cucina. Senonché la pietanza solutoria compendiata negli ultimi due paragrafi è, almeno per me (ma non credo solo per me), del tutto indigesta. Ed è anche preoccupante. Perché è vero che questa Relazione ha un valoroso autore ed esprime anzitutto il suo personale pensiero, in specie quando fortemente propositivo. Ma un elaborato etichettato “Corte Suprema di Cassazione - Ufficio del Massimario e del Ruolo”, pur se non impegna minimamente la Corte (ci mancherebbe!), non può essere considerato alla stregua di un qualsivoglia articolo di un qualsivoglia giovane studioso, ed ha invece notevole capacità di suscitare ispirazioni (improvvide quanto all'argomento che sto per affrontare) anzitutto fra i giudici di merito [*] (per la stessa ragione ho considerato la Relazione “processuale” un utilissimo vademecum in mano a magistrati ed avvocati di frontiera che vogliano evitare di aduggiare il processo con questioni di lana caprina da Covid).
2. Nei paragrafi finali della relazione in commento si sostiene – detto con la sintesi estrema e semplificatoria consentita dalla chiarezza anche di quei paragrafi che meritano di essere letti per intero – (i) che esiste senza meno nel sistema (e discende dai generali principi di solidarietà sociale e di buona fede) un obbligo di tentare effettivamente e seriamente la rinegoziazione del contratto a seguito di sopravvenienze straordinarie quali possono essere quelle “da Covid”; (ii) che esistendo quest'obbligo la sanzione della sua violazione (ove cioè una parte si neghi ingiustificatamente al tentativo di rinegoziazione) non consiste soltanto nell'eventuale risarcimento del danno, bensì nell'esercizio del potere costitutivo del giudice ex art. 2932 c.c. di emanare pronuncia che tenga luogo del nuovo e modificato assetto contrattuale non raggiunto dalla autonomia privata.
Non condivido il presupposto sub (i), ma non ho intenzione di partecipare in proposito e qui ad un dibattito che so estremamente raffinato, risalente, variegato e complesso e che la Relazione per sommi capi perspicuamente ripercorre.
Dirò solo che discorrere di vero e proprio obbligo legale di rinegoziazione del contratto (quello dunque ad esito formalmente e sostanzialmente novativo e non di semplice adeguamento interpretativo), fuori dai casi in cui lo preveda espressamente una pattuizione del medesimo, mi è sempre sembrato paradossale. Perché la solidarietà sociale, perfino nel “Libro Cuore” o in “Piccole donne crescono”, non è ovviamente e di per sé in grado di obbligare a rinegoziare più di quanto non sia in grado di obbligare a contrarre, e cioè lo è solo quando così vuole specificatamente il legislatore. E perché – ammetto il carattere in qualche modo retrivo di questa riflessione ma non ho intenzione di distaccarmene – nel nostro diritto contrattuale il principio di buona fede, in qualunque modo e con qualunque pregnante intensità lo si voglia declinare, è all'evidenza immanente al passato (l'interpretazione) ed al presente (l'esecuzione) del singolo rapporto fra le parti contrattuali e nulla può avere a che vedere col futuro delle medesime e del medesimo e cioè con l'eventuale accordo su un nuovo assetto; quel futuro – se davvero di rinegoziazione si tratta, comprensiva di una pars destruens e di una pars construens e con obiettivo novativo – è né più né meno che un nuovo episodio di autonomia negoziale, ed è sì governato anche dalla buona fede ma sul piano della responsabilità precontrattuale.
Aggiungerò tuttavia che discorrere di obbligo legale di rinegoziazione è alquanto innocuo se la sanzione resta puramente risarcitoria perché sì tratterà di sanzione effimera, nella enorme difficoltà di provare in concreto nesso causale e danno. Più pericoloso è il discorso sul piano della politica del diritto e della politica giudiziaria, dato che, proprio constatandone l'attuale insussistenza e/o il carattere effimero, al legislatore può venire in mente (e dopo il Covid è stato già appositamente ed anche autorevolmente suggerito) di introdurlo sul serio quell'obbligo sotto forma di ADR condizionante la procedibilità dell'azione giudiziaria; ed al giudice può venire in mente di ribadire quell'obbligo in linea teorica per dedurne l'“abusività” o il momentaneo difetto di interesse di azioni non precedute da un effettivo tentativo di rinegoziazione, ovvero per rinviare le parti a quell'inutile purgatorio che è, fuori da casi eccezionali, la conciliazione delegata. Esiti tutti assai perniciosi e spiacevolmente sintomatici – specie dopo la sostanziale stasi della macchina giudiziaria civile italiana (salve lodevoli eccezioni) durante ed anche successivamente al lockdown – di autentico diniego di giustizia. Fermo restando che la rinegoziazione spontanea sarà, nelle crisi contrattuali da Covid, per avveduti players del mercato come per casalinghe e pensionati, di gran lunga il miglior rimedio rispetto a qualsivoglia intervento giudiziale. Fermo resta altresì che, del tutto a prescindere da un formale obbligo legale di rinegoziazione quale lo vuole la Relazione, in taluni e limitati episodi il giudice possa considerare quale contegno rilevante ex art. 116 c.p.c. e/o ai fini della disciplina delle spese di lite la prava elusione di un tentativo di rinegoziare prima del processo.
Vi sono per altro isolate affermazioni della Relazione, in questa parte dedicata all'obbligo di rinegoziazione, che soprattutto perché particolarmente idonee a tradursi in massime giurisprudenziali o nel loro segmento argomentativo o fondamento motivazionale, meritano una qualche circospetta attenzione.
Ad esempio si afferma: “Il venir meno dei flussi di cassa è un contagio diffuso, rispetto al quale la terapia non è la cesura del vincolo negoziale, ma la sospensione, postergazione, riduzione delle obbligazioni che vi sono annesse”. Ineccepibile ma solo parziale. Perché quel contagio è appunto diffuso e sospensione, postergazione, riduzione nel mentre ossigenano i flussi di cassa di una parte ben possono strangolare i flussi di cassa dell'altra (del che il giudice potrebbe e dovrebbe ovviamente tener conto) ma con ripercussioni a catena verso terzi (delle quali il giudice ovviamente non può e non deve tener conto perché non è un boy scout o una componente del Salvation Army).
Ancora (e con citazione da un acuto volume di Francesco Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, 322) si legge: “Gli obblighi di cooperazione consentono di appianare «l'apparente antinomia fra l'obbligo di rinegoziare e la libertà di autodeterminazione, poiché la rinegoziazione tende, non a comprimere, bensì a realizzare la volontà delle parti»”. Ma qui bisogna intendersi, ad evitare almeno sul piano dei concetti che tutti i gatti siano grigi: se interpretazione adeguatrice di buona fede e/o presupposizione (stranamente sempre fuori moda, quest'ultima, nella esperienza giurisprudenziale) sono sufficienti, allora non vi è alcuna antinomia da superare e non ha alcun senso discorrere di rinegoziazione, bensì se del caso di superamento stragiudiziale dei dubbi interpretativi, ed in giudizio non vi è alcun bisogno che il giudice per risolvere la lite postuli un obbligo di rinegoziare né tanto meno che escogiti rimedi extra ordinem alla sua supposta violazione (tornerò su ciò al temine dello scritto); se invece non vi è davvero modo di concretizzare (o realizzare che dir si voglia), alla luce delle sopravvenienze, una volontà concorde che possa ragionevolmente dirsi preesistente, allora qualsiasi imposizione eteronoma del metodo (obbligo di rinegoziare) o del contenuto del nuovo assetto è irrimediabilmente antinomica rispetto alla libertà di autodeterminazione.
Una critica ben più serrata merita invece la seconda proposizione sopra sintetizzata (ii) e riconducibile in particolare all'ultimo paragrafo della Relazione: che de iure condito la conseguenza effettuale della violazione del (presunto) obbligo di rinegoziazione, a seguito di sopravvenienze rilevanti, sia l'“esecuzione specifica ex art. 2932 c.c.” su richiesta dell'altra parte.
3. Trovo questa soluzione del tutto eterodossa, illogica, ed assai pericolosa.
A) La soluzione è eterodossa perché sostanzialmente spregiativa del numero chiuso delle pronunce costitutive e della intrinseca connessione tra l'art. 2908 c.c. ed il principio della separazione dei poteri.
Non basta dire che si applica (analogicamente? estensivamente?) l'art. 2932 c.c. fuori dei suoi limiti testuali per evitare il sentore usurpativo della soluzione proposta.
Le possibilità estensive della prerogativa giudiziale ex art. 2932 e dei conseguenti vantaggi per la parte che deduce la violazione dell'obbligo a contrarre, pur spinte all'estremo (come da ultimo nella giurisprudenza delle Sezioni Unite n. 6459 dl 6.3.2020 relativa al vincolo derivante dal patto fiduciario in materia immobiliare e prima ancora nella giurisprudenza di legittimità e di merito sulla utilizzazione del rimedio costitutivo anche in ipotesi di semplice obbligo di trasferimento con causa solutoria), sono pur sempre legate ad un indefettibile presupposto: che il programma negoziale “costituito per mano di giudice” corrisponda ad un programma già definito dall'obbligo a contrarre (o a trasferire) ed al momento della sua insorgenza. Qui si avrebbe l'esatto contrario perché se una parte ha violato il c.d. obbligo di rinegoziazione (ammesso che esso esista davvero nei termini descritti dalla Relazione) per definizione non potrà mai divinarsi quale programma negoziale fosse da attuarsi mediante l'ossequio a quell'obbligo ed il giudice “costituirà” un prodotto contrattuale di sua invenzione: doppia usurpazione dunque. Detto altrimenti ed in più semplici parole: l'obbligo può essere semmai obbligo di intraprendere la rinegoziazione ma non di concluderla positivamente (v. anche subito infra sub B) e dunque il c.d. obbligo di rinegoziazione semplicemente non è un obbligo a contrarre nel senso di cui dice l'art. 2932 pur elasticamente inteso.
Senza contare che il carattere del tutto extra ordinem della proposta applicazione emerge a contrario da ciò che essa doterebbe – secondo le parole della stessa Relazione – “la parte oberata della sopravvenienza” di “quel potere di invocare la riduzione ad equità del contratto squilibrato che già è attribuito in relazione ai contratti gratuiti e che nei contratti onerosi spetta a controparte”. A contrario, dunque emerge evidente a quali soggetti e solo ad essi il legislatore abbia inteso attribuire il diritto potestativo attuabile mediante l'esercizio del potere costitutivo del giudice sul rapporto contrattuale: non invece alla parte che si dica “oberata della sopravvenienza” nel contratto a prestazioni corrispettive. E se ne intende anche la ragione, ragione e volontà normativa non aggirabili surrettiziamente mediante l'uso disinvolto dell'art. 2932.
È singolare poi, sul piano sistematico, che la Relazione pervenga alla soluzione imperniata sull'art. 2932 c.c. muovendo dalla ricerca di “un intervento eteronomo del giudice di integrazione del rapporto divenuto iniquo” e dopo aver scartato l'appoggio sull'art. 1374 perché mediante esso il giudice potrebbe operare solo “dall'interno del contratto ed in forza di esso” (con pronuncia dichiarativa, appunto, piuttosto che costitutiva). Ma se il legislatore, proprio con l'art. 1374, ha già inteso evitare la iniquità attraverso la “equità” come lievito fecondante la interpretazione adeguatrice dall'“interno del contratto”, postulare ad ogni costo la imprescindibile necessità di un intervento giudiziale “eteronomo” e della sentenza costitutiva è una evidente petizione di principio.
Insomma, la proposta della Relazione somiglia tanto, anche per la nonchalance con cui ci si riferisce all'art. 2932, alla scelta entusiastica di un rimedio più o meno appetibile senza adeguata riflessione sulla sussistenza dei suoi presupposti, come chi corra a scegliere un collier senza badare al cartellino del prezzo.
B) La soluzione è illogica per una fondamentale ragione per altro correlata alle osservazioni precedenti.
Essa emerge dalla stessa Relazione nella parte in cui ovviamente (come si fa, in nome del buon senso prima ancora che del politically correct, tutte le volte che si sbandiera il feticcio dell'obbligo di conciliazione o negoziazione) ha cura di rammentare che oggetto dell'obbligo è il mero e pur effettivo tentativo e non il risultato utile (“l'obbligo di rinegoziazione impone di intavolare nuove trattative e di condurle correttamente, ma non anche di concludere il contratto modificativo”).
La prospettata pronuncia costitutiva risulterebbe dunque illogicamente e largamente ultrattiva rispetto alla “esecuzione specifica” di un obbligo (oltretutto infungibile) a “tentare” e non a contrarre.
E come farebbe poi il giudice a percorrere lo spazio fra tentativo mancato e concreto risultato novativo? Accogliendo la proposta di novazione già formulata dall'attore? e così coartando la libera determinazione negoziale del convenuto, il quale se anche non avesse rifiutato espressamente in sede stragiudiziale quella proposta (con ciò adempiendo in pieno all'obbligo del tentativo) lo avrebbe comunque fatto nel costituirsi in giudizio (ché altrimenti vi sarebbe già la stretta di mano e la cessazione della materia del contendere). Ovvero inventando sua sponte un riassetto novativo? e così potenzialmente scontentando entrambi e contraddicendo in radice la stessa funzione dell'obbligo, il quale ha appunto ad oggetto un tentativo di accordo privato il cui contenuto nessuno può sceverare se prima l'accordo non sia raggiunto.
C) La soluzione è per così dire ideologicamente pericolosa.
Per superare d'un balzo le pregresse osservazioni occorrerebbe giocare a carte scoperte ed assegnare al giudice un potere non già satisfattivo, in via di esecuzione specifica appunto, di un diritto potestativo (alla novazione e ad una determinata novazione) che non c'è, bensì un potere sanzionatorio-deterrente idoneo a compulsare la parte all'adempimento di un obbligo (ammesso che esista) solo ipoteticamente funzionale a quel risultato: “accedi con buona ed effettiva volontà per lo meno al mero tentativo di rinegoziazione, altrimenti il giudice farà da solo e ben di più che semplicemente obbligarti (e non saprebbe concretamente come) a tentare”.
Sennonché questo gioco a carte scoperte richiederebbe davvero una apposita volontà politica del legislatore - l'aggiunta appunto di un nuovo esempio al numero chiuso delle sentenze costitutive al di fuori dello schema dell'art. 2932 c.c.- ed anche solo suggerire tale iniziativa, attraverso la proposta di un velleitario ed impraticabile adeguamento in via pretoria dell'art. 2932, è rischiosissimo.
Ci si incammina così in pieno sulla strada di un paternalismo giudiziario eccessivo perfino rispetto agli episodi che già la giurisprudenza ci offre a iosa (anche fuori del diritto dei contratti: il diritto delle società nella sua dimensione giurisprudenziale è palestra tra le più frequentate dal paternalismo giudiziario, ove ancora una volta l'autonomia privata e l'autodeterminazione sono a più riprese ingabbiate mercé il mantra degli interessi pubblicistici e dei terzi); un paternalismo giudiziario pesantemente esercitato sia sul piano del presupposto (“adesso vediamo se ti sei davvero sforzato di rinegoziare”) che sul piano degli effetti (“adesso vi apparecchio io cosa è meglio per voi”), come la mamma che in cinque minuti dapprima critica severamente col ditino alzato e poi riassembla di sana pianta la mise faticosamente scelta dalla sedicenne per la festicciola (ma si tratta della mamma, di una sedicenne e di una festicciola, non del giudice, di parti a vari livelli consapevoli e provvedute e del libero mercato).
E lo si farebbe in una situazione in cui già la incerta formulazione delle leggi richiede alla giurisdizione un ultroneo superlavoro di supplenza creativa, del quale per altro essa si sobbarca golosamente pur lamentandosi in generale dell'overload e della centuplicazione delle situazioni giustiziabili. Se la legge che nasce ambigua o volutamente compromissoria ha, purtroppo, bisogno del giudice, lasciamo però che quella legge fra le parti private (sovente ben più saggie e concrete degli odierni legislatori) che è il contratto non ne abbia bisogno, in un sistema che garantisce autodeterminazione e libertà individuale, se non per chiarire nel dubbio ciò che le parti hanno voluto, ma non per imporre ciò che le parti ad avviso del giudice farebbero bene a volere.
E nessuno credo si possa risentire se mi permetto di osservare: che il paternalismo giudiziario ove consentito o incoraggiato lo è necessariamente per tutti e su tutto il territorio nazionale e non solo affidato al giudice esperto, pienamente consapevole delle dinamiche di mercato di cui si occupa, possibilmente collegiale, e soprattutto ricco di anni di grande buon senso (è inutile sottolineare che una pronuncia costitutivo-novativa pasticciata da un giudice privo di queste doti sarebbe ben difficilmente rimediabile in Cassazione); e che il paternalismo giudiziario, anche quando incoraggiato e consentito per ragioni emergenziali e contingenti, è poi ben difficile da frenare, nel suo protrarsi nel tempo come nel suo estendersi nello spazio e cioè ad altre materie e situazioni.
4. In conclusione, a me sembra che la pur percepibile emergenza (allo stato però fortunatamente ben lontana sia da una medievale epidemia, con milioni di severamente ammalati e di morti, sia dal conseguente radicale sovvertimento del sistema socioeconomico – se fossimo al livello del 1929 altro che novazione dei contratti per mano di giudice ! – un'emergenza insomma che dà più che altro parvenza di plausibilità all'italico “piangersi addosso” ed all'italico “provarci”) sia gestibile, in materia di rapporti contrattuali, con le norme vigenti e senza stravolgimenti del ruolo del giudice e del codice civile. Il quale una volta di più è benemerito nel suo esserci ancora e nell'essere ancora un faro di logica, di concretezza e di solidità di sistema pur nella fin troppo lunga era della decodificazione. E tanto dovrebbe bastare ad asciugare il “pianto” ed assecondare il “provarci in giudizio” ove essi siano – e lo saranno certamente non poche volte - giustificati dall'emergenza in relazione ai pregressi formali vincoli contrattuali.
Dopo di che alla violazione dell'obbligo di rinegoziazione per sopravvenienze – ammesso che esista davvero al di fuori di apposite pattuizioni contrattuali (sul che, come detto in apertura, sono assolutamente scettico) – può tranquillamente ricondursi la sola sanzione risarcitoria, sempre che si provino nesso causale e danno.
Quanto al resto, non si tratterà naturalmente solo dell'uso, sobriamente adattato alle contingenze, dei classici rimedi più o meno “demolitori” conseguenti alla eccessiva onerosità ed alla sopravvenuta impossibilità parziale o totale della prestazione. Si tratterà, nei congrui casi e con pari sobrietà, di imboccare la via (ri)costruttiva, ma idealmente rispettosa della (ed anzi valorizzante la) privata autonomia, che il codice addita all'art. 1375 e soprattutto all'art. 1374 (più ancora che all'art. 1366).
È strada questa che la Relazione in commento ritiene scartabile o per lo meno insufficiente, a pro della soluzione eterodossa che propone.
Ma quale sarebbe il torto del ricorso alla integrazione equitativa ex art. 1374? Si tratterebbe – si dice – di una soluzione di “angusto contorno” con la quale il giudice “più che intervenire dall'esterno opererebbe dall'interno del contratto ed in forza di esso”, e la soluzione – si aggiunge – sarebbe praticabile in funzione adeguatrice ed integrativa solo ed al più “ogni volta che dal regolamento negoziale dovessero emergere i termini in cui le parti hanno inteso ripartire il rischio derivante dal contratto fornendo al giudice (anche in chiave ermeneutica) i criteri atti a ristabilire l'equilibrio negoziale”. Ma è questo un demerito? Non credo proprio.
E se lo fosse e se davvero dovesse aggirarsi e superarsi la presunta “angustia” della interpretazione equitativo-integrativa, la Relazione ed in futuro la giurisprudenza di legittimità dovrebbero essere in grado, sia pure per clausole generali, di indicare i meno angusti limiti del potere costitutivo/novativo del giudice. Ma la Relazione non li indica e neppure la giurisprudenza di legittimità sarebbe in grado di indicarli, perché se al giudice si dà il potere (non di ricostruire alla luce delle sopravvenienze un assetto plausibilmente riconducibile all'originario esercizio della privata autonomia ma) di immaginare e costituire ciò che la concorde privata autonomia, di fronte alle sopravvenienze, avrebbe voluto ex novo se si fosse determinata a farlo ed invece proprio non ha voluto (esplicitamente o per omissione poco importa), ebbene imporre limiti al giudice è sommamente difficile se non impossibile e l'arbitrio è sempre dietro l'angolo. Senza dire che mentre la soluzione “angusta” della interpretazione giudiziale equitativo-integrativa sopperisce utilmente anche nel caso in cui le parti abbiano davvero provato a rinegoziare e non vi siano riuscite, la soluzione più ampia e libera (ma quanto?) della pronuncia costitutivo-novativa – nella prospettiva di comprensibile self restraint adottata dalla stessa Relazione – non sarebbe utilizzabile in quel caso, bensì solo ove il tentativo di rinegoziazione non fosse stato di fatto neppure avviato per la riottosità di una parte. Il che lascerebbe un evidente senso di amaro in bocca perché ne risulterebbe accentuato il carattere punitivo piuttosto che funzionale del nuovo potere costitutivo del giudice.
So bene che anche per il viatico degli artt. 1374 e 1375 (e/o 1366) si sono verificati (e non pochi) casi di paternalismo giudiziario arbitrario, e che insomma la differenza concreta e operativa fra le due soluzioni può sfumare. Ma è appunto il messaggio ideologico che conta, o se si vuole è il condizionamento normativo che in linea di larga massima conta qualcosa per il giudice soggetto alla legge: una cosa è dire “ricostruisci” altro è dire “sostituisci”. Così come, mutatis mutandis, una cosa è dire che l'oggetto del contratto è determinabile e siamo allora sul piano della fisiologica esplicitazione dell'originario programma negoziale nei modi previsti dalla legge o dal contratto ed all'occorrenza mediante la sua interpretazione dichiarativa. Altra cosa è dire che l'oggetto è indeterminato, con la conseguenza che le parti, se vogliono davvero instaurare un rapporto contrattuale valido ed efficace, devono nuovamente sedersi a tavolino e farlo, e non c'è santo che le possa costringere (salvi gli espliciti vincoli di legge) né tanto meno sostituire.
Quanto all'uso dello strumentario codicistico esistente (sia quello demolitorio sia quello integrativo) proprio l'emergenza farà avvertire la necessità che la Corte di Cassazione supporti da subito ed incisivamente i giudici di merito (ben vengano dunque le riflessioni e gli studi preparatori dell'Ufficio del Massimario, i quali offriranno ai Collegi giudicanti di Piazza Cavour spunti di consenso o di dissenso critico); e che dunque – come mi sono permesso di auspicare già altrove (La possibile epidemia litigiosa e la giurisdizione civile italiana, in www.judicium.it, nonché in Il Processo, 2020, fasc. 3) – da un lato vi sia una utilizzazione incrementale del ricorso o comunque della pronuncia nell'interesse della legge, d'altro lato vi sia, elasticizzando fino al massimo possibile il sindacato della qualificazione e della sussunzione nonché all'occorrenza la specificazione delle clausole generali, una significativa intromissione del giudice di legittimità nella considerazione e nell'apprezzamento di macro-fatti emergenziali in larga misura notori e che hanno riguardato pressoché tutto il territorio nazionale, e che insomma diminuisca statisticamente in subjecta materia, in nome di una nomofilachia concreta e non solo formale, l'incidenza dell'area lasciata alle “valutazioni del giudice del merito insindacabili in Cassazione”.
[*] Perciò – lo si dice con rispetto pari alla franchezza – non avrebbe guastato il suggerimento, da chi di dovere, perlomeno di una maggior cautela e di un tono più dubitativo negli ultimi due paragrafi della Relazione.