Il nuovo Ministro della Giustizia si insedia e, sapientemente coadiuvata, affronta subito, sine strepitu e lodevolmente, molti dossier languenti. Non secondaria e brillante è ad esempio la soluzione rapida di quello sugli “esami di avvocato ai tempi del covid”, meritoria iniziativa finalmente a favore dei giovani dopo un anno di forzata preoccupazione governativa rivolta soprattutto agli anziani.
Approccia inevitabilmente anche il dossier della giustizia civile. Ce lo chiede, come di consueto, l’Europa e questa volta anche ai fini delle pronte erogazioni da recovery, mercè le quali oltretutto si potrebbe fare anche molto proprio per la giustizia civile.
La sensazione di molti ed anche mia è che ormai le disfunzioni della giustizia civile siano, come causa di ostacolo alla competitività del sistema-paese, di gran lunga diminuite di rilevanza a petto della invadenza di alcune procure penali e di uno pseudo-diritto amministrativo d’accatto (lontanissimo dai valori e dalla saggezza dei suoi padri nobili). La sensazione mia personale e temo di pochi altri è che sulle disfunzioni della nostra giustizia civile - nel confronto statistico, assai poco sofisticato e meditato, rispetto a quel che succede all’estero - ci siamo pianti addosso un tantino troppo.
Né l’una né l’altra cosa escludono però che le disfunzioni vi siano e che della giustizia civile ci si debba ed anche urgentemente occupare.
Né pochi né molti, ma invece proprio tutti compreso il barista sotto casa, sono consapevoli ormai che quelle disfunzioni sono al 99% rimediabili solo con drastiche misure organizzative o riorganizzative e conseguenti iniezioni di denari, e non con ulteriori riforme delle disposizioni di rito, le quali riforme sono modestissimamente funzionali, rappresentando oltretutto esse stesse, specie se continuative, una fonte di complicazione e di duro studio e faticosa acclimatazione aggiuntivi.
Il Ministero affronta ed affronterà (confido) i profili organizzativi e riorganizzativi. Ma dovrà farlo con reale coraggio, senza accontentarsi dell’ufficio del giudice, e ponendo mano alla reintegrazione ed anzi alla implementazione degli organici della magistratura civile (tacitando nel modo più ragionevole mugugni corporativi o di bilancio, perché i giudici addetti al civile sono oggettivamente troppo pochi e la cosa è troppo importante, e sfuggendo alle chimere di sezioni stralcio e magistrati onorari, perché è all’evidenza meglio rischiare un aumento di inesperienza di giovani neo-magistrati entusiasti, piuttosto che le incognite di giudici onorari mediamente attempati e demotivati e non reclutati propriamente fra i principi del foro). Ed in tale ambito dovrà, a mio sommesso avviso, mostrare subito coraggio supplementare, richiamando dai ministeri e da altri uffici i tanti magistrati ivi allocati, e impegnando quali magistrati decidenti (specialmente nelle bisognose corti d’appello) anche i valorosi giuristi che attualmente prestano i loro uffici (inutili a fronte del bisogno) quali PG nei giudizi civili di cassazione: cure da cavallo, si dirà, ma siamo o non siamo in stato di bisogno? Se sì, è quello (e non solo) che ci vuole. Altrimenti, appunto, smettiamo di piangerci addosso.
Il Ministero, oltre ad avviarsi su questa strada organizzativa sperabilmente ancora lunga e rapidamente percorsa, si tinge poi e subito della pece di tutte le compagini ministeriali precedenti: istituisce celermente una Commissione per elaborare un progetto di legge-delega di riforma della disciplina processualcivilistica, o meglio per rivedere quello recente e giacente. La Commissione, autorevolmente presieduta ed integrata (ma ahimé con ben pochi avvocati al suo interno), lavora altrettanto celermente e rende al Ministro un progetto assai limitatamente utile per le ragioni oggettive già dette, senza cure da cavallo “processuali” pur possibili ed a mio avviso più utili (es. appello procedibile solo se, una volta vistasi negare l’inibitoria, l’appellante adempie alla condanna di primo grado, esecuzione in forma specifica integralmente affidata all’ufficio del giudice che ha emanato la sentenza titolo esecutivo ecc.) e però escluse dal circoscritto ambito del lavoro commissionato; un progetto però complessivamente davvero ben confezionato sul piano tecnico, razionale e sicuramente non superfluo.
Il Ministro lo fa suo con alcune modifiche più o meno condivisibili e lo inoltra al Parlamento.
Adesso che l’iter è avviato sono possibili e auspicabili i dibattiti e gli affinamenti, ma mi sembra velleitario ripetere che non bisogna farsi illusioni sulle riforme del rito e che i problemi sono altri, e che comunque siamo stufi di studiare e ristudiare ritocchi normativi. Lo sappiano tutti, lo sa la Commissione, lo sa il Ministero. Si vada dunque obtorto collo avanti se ciò giova ad ottenere le note provvidenze europee.
Due soli profili vanno tuttavia subito corretti - in Parlamento - nel progetto ministeriale, evitando così che esso si riveli fortemente dannoso.
Capitolo primo. La Commissione ministeriale, giunta ai nodi della disciplina del processo di cognizione ordinario di primo grado, si spacca e salomonicamente offre al Ministero due proposte alternative.
Riassumo riunendo principi di delega progettati e perspicui e corrispondenti passaggi della Relazione di accompagnamento:
Proposta A - Il processo di cognizione ordinario in primo grado, dopo il riassetto del 2006, ha dato sostanzialmente buona prova e sostanzialmente non va toccato quanto al sistema delle preclusioni semirigide e della formazione, progressiva e rispettosa del contraddittorio, del thema decidendum e del thema probandum. Occorre solo evitare dilazioni inutili nell’avvio della causa sui binari decisori (precisazione delle conclusioni e trattenimento in decisione) e consentire al giudice, nei congrui casi, la discrezionale riduzione dei termini per le tre memorie ex art. 183 cpc.
Proposta B - Occorre invece, per un processo più rapido e funzionale, irrigidire le preclusioni ed in particolare quelle istruttorie. Attore e convenuto debbono, a pena di decadenza, esporre tutte le allegazioni ed altresì indicare e produrre rispettivamente nella citazione e nella comparsa i mezzi di prova. Può poi consentirsi all’attore di svolgere alla prima udienza le iniziative consequenziali alle difese del convenuto, e ad entrambe le parti di articolare successivamente le richieste istruttorie consequenziali: vedrà il legislatore delegato come disciplinare tecnicamente questi snodi successivi ed eventuali di trattazione.
L’alternativa è in linea teorica di profilo alto o medio-alto, perfino densa di sapore chiovendiano con tutto quel che notoriamente segue. Ma oggi ed in concreto, e dopo tanta acqua passata sotto i ponti, la scelta parrebbe obbligata come di fronte a certi quiz da scuola guida: “Hai messo sotto con l’auto una anziana signora; che fai? A) Ti fermi subito e la soccorri. B) Scappi più celermente possibile”.
Chi origlia dietro la porta delle segrete stanza confida ed ha la netta sensazione che il Ministero stia per scegliere A). Ed invece negli Emendamenti Governativi trasmessi al Parlamento, ed in primo luogo alla Commissione Giustizia senatoriale, si ritrova prescelta la proposta B) (v. Emendamento-8, sub art. 3, c. 1, lett. c, c-quater, c-quinquies, c-sexies).
E così - se le Camere non vi porranno doveroso rimedio, magari sulla scia delle proteste diffuse ed in particolare di quelle della classe forense (speriamo non troppo disordinate e non troppo criticone bensì incentrate soprattutto su questo profilo) - ci ritroveremo, nel rito civile ordinario, con le preclusioni istruttorie, ma tendenzialmente ed almeno nominalmente anche assertive, anticipate agli atti introduttivi. Che è affare - ripeto sul piano eminentemente pratico al quale qui vorrei arrestarmi, e per chiunque frequenti e contempli con un minimo di buon senso le aule di giustizia - francamente inaccettabile. Perché, nel doveroso calcolo costi-benefici ed a tacer d’altro, è affare: a) in sé pericoloso e negativo; b) non giustificato minimamente da esigenze di economia processuale ed in particolare di accelerazione dei giudizi; c) ed anzi dannoso per la stessa economia processuale.
a) È oggettivamente pericoloso, in generale ed anche in relazione all’assetto sistematico dell’attuale giudizio di primo grado per come ritoccato dalla progettata riforma, perché:
• l’arretramento delle preclusioni, massime di quelle istruttorie, è per definizione contrario all’accertamento della verità materiale;
• menoma anche e gravemente il diritto di difesa, visto che le esigenze istruttorie “tardive” rispetto a preclusioni arretrate sono schiettamente dovute al corretto ed elastico esercizio del medesimo diritto di difesa, molto più spesso di quanto non siano dovute alla distrazione di avvocati negligenti o alla callida strategia di avvocati furbi (e se anche la percentuale fosse “fifty-fifty” andrebbe pur sempre soccorsa la metà buona);
• è di regola del tutto illogico rispetto ad un giudizio in cui la materia del contendere si completa per forza di cose dopo gli atti introduttivi, all’udienza ed anche successivamente alla medesima (vedi anche infra sub b);
• è incongruo, in particolare, rispetto al principio di non contestazione (che la stessa progettata riforma intende potenziare) quale strumento di risparmio di attività istruttoria inutile per il giudice ma anche ed in primo luogo per le parti: in teoria ed anche in pratica l’attore dovrebbe provare tutto e subito, senza ancora conoscere fin dove davvero si estenda il suo onere, visto che il convenuto non ha avuto modo di contestare; idem per il convenuto;
• stride nell’ambito di una complessiva riforma che intende conservare e migliorare il rito sommario di cognizione come alternativa diversificata, perché la diversificazione scema e diviene quasi solo esornativa;
• non può essere santificato - come strumento moralizzante duro e puro - dalla esperienza del rito del lavoro e delle sue estensioni: in primo luogo perché nel processo non vi è proprio nulla da moralizzare, ma solo vi è da fare giustizia, comprensiva all’occorrenza delle sanzioni per la parte che abbia abusato dei meccanismi processuali; in secondo luogo perché neppure nel rito del lavoro quello strumento ha dato prova di santità ed è stato infatti pragmaticamente adeguato per evitare le incongruenze di cui sopra (vedi anche oltre); in terzo luogo perché il contenzioso giuslavorista (non meno che gli altri a cui il rito-lavoro si applica) è standardizzato, a tratti quasi seriale, e relativamente semplice a petto delle varietà e complessità del contenzioso civile.
b) Sebbene subito dopo l’infausta scelta una autorevole intervista di provenienza ministeriale sul “Sole” proclami (imbonendo non so se la mitica Europa o gli omnes): “Con l’anticipo dei mezzi di prova cause più veloci”, la cosa non è affatto vera. Anzi ha fatto sorridere gli addetti ai lavori fin dagli anni ‘80, ridere dagli anni ‘90, sghignazzare dal 2000, e adesso fa proprio sbellicare i polli.
Non è tanto e solo il discorso, ormai perfino trito, che le cause delle lungaggini sono altre e prevalentemente organizzative. Il fatto è che, già sul piano razionale e perfino astratto, il risparmio di tempo che si ha con l’anticipazione delle preclusioni istruttorie è totalmente illusorio. Dato un certo tempo di cottura in forno per realizzare una torta (fuori di metafora: il tempo della fase decisoria notoriamente lunghetto ed in buona misura normativamente incomprimibile, visto il noto “collo di bottiglia” dato dal rapporto fra il numero delle cause ed il numero di giudici e le loro capacità di lavoro), stabilire che fuori dal forno il sale ed il bicarbonato vadano messi nell’impasto prima dei tuorli d’uovo sbattuti piuttosto che subito dopo è del tutto indifferente e non avvicina di un secondo il momento in cui assaggerò la torta.
E poi di che risparmio temporale, anche volendo, parleremmo? Degli 80 giorni corrispondenti ai depositi delle attuali memorie ex art. 183 ? Ma scherziamo?! Ed anzi neppure di quelli, perché il principio di delega nel progetto governativo (art. 3, c. 1, lett. c-quinquies) impone ovviamente di “adeguare le disposizioni sulla trattazione della causa ai principi di cui alle lettere da c a c-quater [quelli sulle preclusioni anticipate appunto], assicurando nel corso della prima udienza il diritto dell’attore di replicare anche proponendo domande ed eccezioni che siano la conseguenza delle difese svolte dal convenuto, nonché il diritto di entrambe le parti di articolare i necessari e conseguenti mezzi istruttori”; sicché sarà fatale, considerando anzitutto ma non solo la posizione del convenuto in controreplica all’attore, che la normativa delegata faccia risorgere una e probabilmente anche due delle memorie 183.
Sarebbe più che sufficiente invece attestarsi sul buon risultato di concentrazione raggiunto quanto al processo di cognizione di primo grado dalla riforma del 2006; rimediare al sabotaggio del suo spirito di concentrazione attuatosi pressoché ovunque con la prassi che ha fatto risorgere dalle ceneri ed in modo standardizzato (piuttosto che come occasionale eccezione) l’”udienza di ammissione dei mezzi di prova”; confermare gli incentivi normativi che la progettata riforma ministeriale escogita per favorire la sollecita precisazione delle conclusioni (ma è bene arrendersi alla realtà: finché il “collo di bottiglia” perdura il giudice troverà sempre il modo per dilazionare l’amaro calice e lo si dovrà, nei congrui limiti, anche comprendere); e, se proprio si vogliono contare “giorni in meno”, accontentarsi di ciò che, con rara quanto apprezzabile modestia, vi era scritto nella Proposta A della Commissione: il giudice può modulare e ridurre i termini delle tre memorie.
c) Infine, l’arretramento delle preclusioni istruttorie (e normalmente anche di quelle assertive) nel rito civile ordinario arrecherebbe notevoli danni proprio alla economia processuale. In cause anche solo mediamente complicate e soprattutto, ma non solo, ove vi sia pluralità di parti (e si pensi poi a contenziosi particolarmente complicati ed affollati di partecipanti come quelli sulle azioni sociali di responsabilità, con chiamate in causa e domande trasversali fra i convenuti ecc....) sarà facile attendersi alla prima udienza o giù di lì i tentativi più o meno giustificati di aggiustamento del tiro, e cioè un profluvio di istanze di rimessone in termini istruttori o anche di semplice richiesta di ammissione di prove nuove sulla base del necessario coordinamento fra le regole preclusive ordinarie e gli artt. 101 cpc e 24 e 111 Cost. (ed anche fuori o a latere rispetto a quanto espressamente dovrà comunque essere previsto dalla normativa delegata in attuazione del criterio di delega cui ho fatto riferimento appena sopra sub b).
Dal che: rischi di strumentalizzazioni dilatorie; interminabili dibattiti su questioni di rito che notoriamente non sono il fine del processo; creazioni di prassi diverse da tribunale a tribunale, o da giudice a giudice, o da caso a caso; trascinamento di tutto ciò per tre gradi di giudizio con la Suprema Corte chiamata (a nozze, visto che di processo civile è in questi ultimi anni particolarmente appassionata) a scrivere pagine e pagine dotte ed intese a creare, a macchia di leopardo, un sistema casistico di regole pretorie.
Ove è ovvio: che ciò non è successo o è successo solo in minima parte quanto al rito del lavoro visto il cennato carattere relativamente standardizzato e semplice del relativo contenzioso; che ciò può accadere (ed è occasionalmente accaduto) anche quanto all’attuale (ed apprezzabilissimo) rito di cognizione sortito dalla novella del 2006, ma è elementare che statisticamente il rischio risulti drasticamente diminuito dalla posticipazione delle preclusioni, assertive ed istruttorie, alle memorie ex art. 183.
P.s. Proprio mentre scrivo, oggi 25 giugno 2021, mi giunge, per immancabile e benemerita via telematica, una comunicazione di cancelleria: “il Giudice, ritenuta la causa matura per la decisione [dopo una doverosa istruttoria mediante CTU, giustamente astretta entro tempistiche rapide, e senza precedenti preclusioni istruttorie che non fossero quelle ragionevoli in voga attualmente - Ndr.] rinvia per la precisazione delle conclusione alla udienza del 6.7.2022”. A fra un anno. E la cosa è ovviamente considerata assolutamente normale, e si tratta di un giudice serio e solerte. A me non piace il romanesco. Però alla domanda “volete accelerare i tempi del processo di primo grado con le preclusioni istruttorie anticipate?” non si può che rispondere “ma che...davero... davero?”.
Capitolo secondo. La Commissione ministeriale ha proposto (vedi sub art. 4, lett. j delle “Proposte Normative”) la introduzione, nel giudizio di primo grado su diritti disponibili innanzi al Tribunale, di una ordinanza provvisoria di accoglimento della domanda denominata “Ordinanza di condanna con riserva”, emanabile “quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiano manifestamente infondate”. Il Ministero, negli Emendamenti Governativi trasmessi al Parlamento, recepisce la proposta, limita la “ordinanza provvisoria di accoglimento” al corso della causa (eliminando la possibilità di sua concessione ante causam); conserva la sua reclamabilità ex art. 669 terdecies cpc e la ovvia inidoneità al giudicato ed inefficacia in altri processi, nonché la opportuna prosecuzione del giudizio (in caso di accoglimento del reclamo) innanzi ad altro magistrato dell’ufficio.
A tempo debito - e cioè solo se e quando la novità sarà davvero vigente, perché almeno personalmente sono un po’ stufo di dedicare ancora una volta tempo a riforme processuali in fieri - si discuterà della sua effettiva utilità (possibile) e dei suoi risvolti sistematici (estremamente interessanti).
Sennonché nei cennati Emendamenti Governativi (Emendamento-8, sub art. 3, c. 1, lett. c-undecies) appare qualcosa che la Commissione ministeriale si era ben guardata dal proporre, e cioè l’ipotesi speculare di una “ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta, quando quest’ultima è manifestamente infondata ovvero se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito dall’articolo 163, terzo comma, numero 3) del codice di procedura civile ovvero se manca l’esposizione dei fatti di cui al numero 4) del predetto terzo comma” (seguono parimenti: inidoneità al giudicato ecc., opportunità di reclamo, e prosecuzione del giudizio di merito, innanzi ad altro magistrato se il reclamo è accolto).
Questa speculare “ordinanza provvisoria di rigetto” a me pare sommamente inutile e dannosa (e non credo di essere il solo) per le seguenti semplici ragioni.
Mentre l’“ordinanza provvisoria di accoglimento”, modellata sul référé franco-belga e idonea ad attribuire interinalmente ed a certe ragionevoli condizioni il bene della vita oggetto della domanda, può avere una apprezzabile funzione in termini di effettività ed accelerazione della tutela (superandosi – almeno in corso di causa secondo i più limitati intendimenti ministeriali – le perduranti e pur labili ristrettezze dell’art. 700), l’ordinanza provvisoria di rigetto è un totale “non senso” sistematico e pratico.
Non ha alcun senso il rigetto della pretesa dell’attore – e cioè l’accertamento negativo circa il diritto vantato dall’attore – in via “provvisoria”, essendo evidente che un tale accertamento negativo intanto può avere una concreta funzione solo in quanto sia definitivo.
D’altro lato, se la domanda dell’attore si rivela ictu oculi infondata (ad esempio per radicale carenza dei suoi giuridici presupposti), il giudice ha già nel sistema vigente, ed a fortiori nel sistema del giudizio di primo grado complessivamente immaginato dalla progettata riforma, strumenti sufficienti per accelerare la decisione definitiva e idonea al giudicato. Insomma egli andrà celermente in decisione, e nel frattempo … non sta accogliendo la domanda e questo semplice “non accogliere” non è sostanzialmente diverso dal rigettare “provvisoriamente”. E se proprio vuole dare alle parti un segnale prognostico in forma provvedimentale, gli basterà scrivere e motivare per bene una ordinanza istruttoria, che è operazione oltretutto più semplice e meno compromettente che scrivere la ordinanza provvisoria di rigetto.
Non vi è insomma alcun bisogno di dare al giudice la possibilità di anticipare in via provvisoria la decisione di rigetto costringendo l’ufficio giudiziario a decidere poi una seconda volta con sentenza sullo stesso oggetto (ove la causa non venga abbandonata); ed interponendosi per di più la complicazione del possibile reclamo avverso l’ordinanza provvisoria di rigetto.
Vi è inoltre che lo strumento si presta ad arbitrii da parte del giudice monocratico difficilmente controllabili, se non con il reclamo e perciò sostanzialmente aduggiando anche il giudizio potenzialmente più rapido con una causa nella causa. E ancora vi è che la misura del rigetto appare comunque del tutto incongrua e foriera di equivoci quando la domanda dell’attore sia indeterminata quanto a petitum o causa petendi in fatto, e perciò viziata in rito. Ma si tratterà di anticipazione di un rigetto nel merito senza che si sia data la possibilità di sanatoria ex art. 164? O di anticipare la declaratoria di inammissibilità in rito dopo la mancata sanatoria? Nel primo caso c’è palesemente qualcosa che non quadra. Nel secondo basta andare velocemente a sentenza (se gioco con Federer tanto vale attendere che mi liquidi 6-0/6-0 in un quarto d’ora senza farmi vedere palla, piuttosto che consentire ad una giuria di puristi a bordo campo di interrompere provvisoriamente la partita per dirmi che sto giocando male). Ed è inutile in proposito che l’emendamento governativo (lett. c-undecies, n. 4) disponga, a livello di delega, di coordinare (ma come?) la “ordinanza provvisionale di rigetto” con “la disciplina dell’art. 164 quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile”. Le regole sulla nullità della domanda relativamente alla editio actionis sono poste in limine a tutela della regolarità del contraddittorio e perciò anche del diritto di difesa della parte che è incorsa nella nullità, alla quale è concesso l’aggiustamento del tiro entro termine perentorio. In limine litis, e cioè anche al momento della eventuale emanazione della “ordinanza provvisoria di rigetto”, non ha senso trasformarle, da regole di rito, in ragioni di reiezione nel merito della domanda; allora tanto vale eliminarle del tutto come regole di rito. Mentre è ovvio che se le regole di rito sulla nullità della citazione permangono e la loro inosservanza non è sanata mercè i meccanismi dell’art. 164 semplicemente perché la nullità non è stata rilevata, un atto di citazione del tutto incerto quanto a petitum o causa petendi (e cioè scritto malissimo) sarà verosimilmente destinato comunque alla reiezione nel merito, ma lo si dirà appunto con la sentenza definitiva.
Stando così le cose - o almeno a me pare che stiano così - spero vivamente che codesta “stranezza” cada in Parlamento. Ed anzi al Ministero darebbero un bel segno di maturità e consapevolezza se ufficialmente (ove possibile) ritirassero in parte qua l’Emendamento, o ufficiosamente ne favorissero la soppressione parlamentare; così oltretutto valorizzando il resto della iniziativa governativa.
Si potrà sempre dire che si è trattato di una umana svista, di una malintesa ed assai poco opinata voglia di simmetria rispetto alla introduzione della “ordinanza provvisoria di accoglimento”.
Altrimenti resterà il forte sospetto che non si sia trattato affatto di una svista, bensì della intenzione di introdurre surrettiziamente un brutale e sbrigativo metodo di pulizia del ruolo per il giudice scansafatiche: ti rigetto la domanda con ordinanza provvisoria “nonsobenecomeeperche” e vediamo se hai il coraggio di fare reclamo o di proseguire la causa fino alla sentenza (il piccolo particolare è però che ad estinguere la causa dopo l’ordinanza bisogna essere in due e quell’altro, e cioè il convenuto, difficilmente ci starà, perché vorrà il giudicato di rigetto e comunque una bella condanna dell’attore alle spese). Ma allora è meglio l’ordalia o la monetina lanciata in aria, piuttosto che un simile strumento in mano ad un giudice civile, diciamo così, “medio” e sostanzialmente ed inevitabilmente irresponsabile.