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GIUSTIZIA CIVILE Riv. trim.

Numero 1 - 2016

Dichiarazioni inviate o pervenute in fotocopia, principio di apparenza e conclusione del contratto

di

Sommario:

  1. Premesse: il caso deciso da Cass. n. 17641 del 2012.
  2. (Segue): le perplessità destate dalla sentenza.
  3. La consegna dell’originale della dichiarazione non è sempre necessaria.
  4. Gli interessi rilevanti nel processo di trasmissione della dichiarazione.
  5. Anomalie che possono verificarsi nel processo di trasmissione della dichiarazione.
  6. Interessi protetti nel processo di trasmissione della dichiarazione, affidamento delle parti e principio di apparenza.
  7. Principio di apparenza e volontario indirizzamento della dichiarazione.
  8. (Segue): i presupposti necessari per l’applicazione del principio di apparenza nella trasmissione della dichiarazione.
  9. Considerazioni conclusive.

1.  Premesse: il caso deciso da Cass. n. 17641 del 2012.

Una sentenza della Corte di cassazione di alcuni anni or sono [1], che a quanto mi risulta non ha finora destato attenzione, offre l’occasione per alcune più ampie considerazioni in tema di conclusione del contratto.

Un creditore pretende dal proprio debitore una fideiussione bancaria a garanzia dell’adempimento. Il debitore ottiene la garanzia da un istituto di credito, il quale ne consegna l’originale all’ordinante perché lo faccia avere al proprio creditore. L’ordinante, però, consegna all’interessato (controparte della banca nel contratto di fideiussione) solo una fotocopia, e quindi restituisce il documento originale all’istituto adducendo che la garanzia non è più necessaria. A questo punto, la banca si considera non più obbligata, mentre il creditore reputa il contratto regolarmente concluso. E difatti, sopravvenuto l’inadempimento dell’obbligazione garantita, il creditore pretende di escutere la fideiussione, mentre la banca oppone che il contratto non si è concluso, stante che il documento originale, contenente l’assunzione della garanzia, non è mai stato consegnato alla controparte.

La S.C. accoglie l’eccezione della banca sulla base del ragionamento che segue. Premessa la considerazione generale che la fideiussione è uno di quei contratti che possono concludersi ai sensi dell’art. 1333 c.c., e quindi senza che sia necessaria l’espressa accettazione della controparte [2], si afferma che «la conoscenza [in capo al creditore garantito] della fideiussione non era valsa a determinare il sorgere dell’obbligazione, atteso che nel caso di trasmissione di semplice fotocopia da parte del debitore garantito non si era determinata la manifestazione della volontà del proponente, rivolta al destinatario, della propria volontà contrattuale».

2.  (Segue): le perplessità destate dalla sentenza.

In buona sostanza, la Corte ha deciso la controversia sulla base di un principio di diritto che può così riassumersi: la volontà contrattuale produce effetto solo se al destinatario perviene il documento originale da cui essa risulta, non bastando la recezione di una semplice fotocopia di esso [3].

Questa soluzione desta perplessità, in quanto espone l’oblato al rischio di vedere tradito un legittimo affidamento nella conclusione del contratto, essendo difficile affermare che sia sempre irragionevole la convinzione circa il valore concludente della consegna della fotocopia, e che, quindi, il relativo affidamento non sia mai meritevole di protezione [4]. Ed anche sul piano tecnico i dubbi non mancano. La Corte, infatti, non ha preso in considerazione l’intero procedimento di formazione del contratto, ma solo un aspetto del suo elemento terminale, e cioè il modo in cui la proposta è pervenuta a conoscenza dell’oblato, trascurando altri elementi la cui rilevanza, invece, non poteva escludersi. Fra questi mette conto ricordare la circostanza che la volontà contrattuale non solo si era regolarmente formata, ma era anche stata manifestata ed emessa: si era distaccata dall’emittente, il quale la aveva indirizzata al destinatario al fine di farla pervenire a conoscenza di quest’ultimo; e che una deviazione, rispetto all’ordinario processo di trasmissione, era stata impressa dal soggetto che l’emittente medesimo aveva incaricato (nuncius). Questo sembra essere un punto debole della motivazione, in quanto, se è vero che la fattispecie della proposta contrattuale deve essere completa e perfetta in tutti i suoi aspetti compresa la recezione da parte del destinatario [5], non è meno vero, da una parte, che le norme non descrivono precisamente i requisiti della recezione, dall’altra parte, che è l’intero procedimento della trasmissione che deve essere preso in considerazione, in quanto il modo in cui si atteggiano le prime fasi di esso può influire sulla valutazione di come si è conformata la fase terminale.

3.  La consegna dell’originale della dichiarazione non è sempre necessaria.

Va poi osservato che non esiste nel nostro ordinamento un principio assoluto in forza del quale la dichiarazione contrattuale si intende validamente pervenuta al destinatario solo se questi riceve l’originale sottoscritto di pugno del dichiarante.

Anzitutto, prevale oggi (ed è ormai pressoché pacifica in giurisprudenza) l’opinione che il contratto possa concludersi per mezzo del telefax: chi invia una accettazione per telefax trattiene presso di sé l’originale, mentre al destinatario perviene solo una fotocopia creata a distanza attraverso un apposito apparecchio [6]. E non deve neppure trascurarsi che un contratto può essere validamente concluso mediante un telegramma, ancorché l’originale non sia stato sottoscritto dal mittente e purché risulti (anche per presunzioni) che il telegramma è stato effettivamente spedito da chi appare esserne il mittente. Mentre, quindi, il telefax presuppone la sottoscrizione, per il telegramma la sottoscrizione non è indispensabile e può essere sostituita da altri criteri di imputazione della dichiarazione al suo autore; ed anche quando la sottoscrizione non manca, il documento che la contiene non viene inviato al destinatario [7].

Sia il telefax sia il telegramma, insomma, operano i loro effetti mediante la predisposizione di una scrittura originale, che nel primo caso è sottoscritta dal dichiarante e nel secondo caso può esserlo, ma che non viene consegnata al destinatario, il quale riceve solo, anche per gli effetti di cui agli artt. 1333, 1334 e 1335 c.c., un documento diverso: una fotocopia prodotta a distanza ovvero un messaggio identico nel contenuto ma completamente diverso dal punto di vista morfologico e non recante neppure una riproduzione della (eventuale) sottoscrizione.

Perché un principio diverso dovrebbe valere per la semplice fotocopia, regolarmente consegnata al destinatario? Certo si può opporre che il fax ed il telegramma servono naturaliter a trasmettere una dichiarazione ad un destinatario determinato e contengono in sé il criterio che consente di imputarli all’emittente; la semplice fotocopia, invece, può essere stata consegnata al destinatario per le più diverse ragioni, e non è detto che nelle intenzioni del dichiarante servisse proprio ad emettere definitivamente la volontà che pure è in essa rappresentata. Nondimeno, ciò non può essere escluso in assoluto, di modo che bisogna chiedersi se il miglior criterio di soluzione, di fronte alla questione presentatasi all’attenzione della Corte, non consistesse nel valorizzare le circostanze del caso concreto nel quadro dei princìpi, piuttosto che nell’addurre un principio generale di estensione e consistenza assai problematiche, tanto più che anche fuori delle ipotesi “tipiche” appena accennate la giurisprudenza non mostra un atteggiamento univocamente ostile nei confronti della trasmissione delle dichiarazioni contrattuali in modo diverso dalla consegna del documento originale.

Una certa rigidità emerge nel settore dei contratti pubblici, ma essa dipende dalla rigidità stessa dei procedimenti pubblicistici di scelta del contraente privato, oltre che dalle peculiari esigenze di certezza e stabilità che connotano tale materia [8] (mentre non emergono indicazioni significative, nei profili qui esaminati, da una recentissima sentenza in cui la Corte di cassazione ha negato l’equivalenza all’originale di una copia in carta carbone della scheda testamentaria: la indisponibilità dell’originale, infatti, ha semplicemente indotto la Corte a presumere che esso fosse stato distrutto, e che quindi valesse, in difetto di prova contraria, la presunzione di revoca per volontaria distruzione istituita dall’art. 684 c.c. [9]).

Fuori di questo settore, è stato statuito che «la recettizietà della procura non comporta che la efficacia della stessa sia subordinata alla consegna dell’originale del documento al rappresentante, essendo sufficiente che il mandante comunichi allo stesso il conferimento dei poteri rappresentativi» [10]; si è ritenuto validamente concluso il contratto (formale!) in un caso in cui il nuncius, in possesso della accettazione scritta, si era limitato a darne informazione al proponente per telegramma [11]; ed ancora, «pur in assenza della apposizione della firma sul contratto da parte della banca, l’intento di questa di avvalersi del contratto tramite manifestazioni di volontà esternate nel corso del rapporto di conto corrente, quali le comunicazioni degli estratti conto, integrano modalità di perfezionamento del contratto stesso con rispetto della forma scritta ad substantiam» [12].

 

4.  Gli interessi rilevanti nel processo di trasmissione della dichiarazione.

È difficile enucleare, dalla limitata casistica che ho potuto rinvenire, solide ed univoche direttive generali, e tuttavia vi sono elementi sufficienti per ritenere che la recettizietà non si traduca rigidamente – dal lato del destinatario – in una sorta di cartolarità della dichiarazione. D’altra parte, tuttavia, non pare neppure possibile, passando all’altro estremo, consentire indiscriminatamente alle parti di trasmettere le proprie dichiarazioni in qualsiasi modo ritengano opportuno. Si tratta, quindi, andando anche oltre la fattispecie considerata da Cass. n. 17641 del 2012, di indicare gli interessi che meritano protezione e le soluzioni più equilibrate ed opportune sulla base dei principi generali dell’ordinamento.

Il problema fondamentale consiste nell’assicurare, da un lato, la effettività ed attualità della volontà negoziale del dichiarante, tenendo conto che essa può considerarsi effettiva e attuale solo quando la dichiarazione è stata emessa e indirizzata con lo scopo di farla giungere a conoscenza del destinatario; dall’altro lato, che gli effetti della dichiarazione corrispondano al legittimo e ragionevole affidamento di quest’ultimo, e quindi siano quelli che può attribuire alla dichiarazione (anche per le modalità con cui gli è stata trasmessa) un destinatario che valuta le circostanze con diligenza e buona fede. Lascio in disparte la questione dei contenuti e del confezionamento della dichiarazione contrattuale in sé, se non per l’ovvia considerazione che deve trattarsi di un testo munito di tutte le caratteristiche proprie del tipo cui appartiene (ad es., se si tratta di una proposta deve essere completa e manifestare la volontà attuale di concludere il contratto; se si tratta di un’accettazione deve essere conforme alla proposta, e così via). Bisogna, invece, soffermarsi sul problema della trasmissione della dichiarazione, al fine di stabilire come, in questa fase del procedimento negoziale, trovino realizzazione gli interessi sopra accennati (come si diceva, infatti, anche le modalità della trasmissione possono concorrere a rendere manifesta la attualità e la serietà della volontà negoziale, nonché a formare l’affidamento del destinatario a tale proposito) [13].

Questa fase ha un momento iniziale costituito dall’indirizzamento della dichiarazione al destinatario, ed un momento finale costituito dalla recezione da parte di quest’ultimo. La legge non descrive le modalità pratiche (che in concreto possono essere molto varie) di tali eventi [14], né tanto meno prende posizione su ciò che può accadere nella fase intermedia, dopo che la dichiarazione si è distaccata dal suo autore e prima che abbia fatto ingresso nella sfera del destinatario [15].

Vi è, nondimeno, per tutto ciò uno schema (almeno socialmente) tipico, costituito dalla consegna (diretta o a ministero di un servizio postale pubblico o privato) del testo originale della dichiarazione, sottoscritta dal dichiarante [16], nelle mani o comunque all’indirizzo del destinatario. Se i fatti concreti corrispondono allo schema tipico, grossi problemi non sussistono. I problemi possono sorgere quando i fatti deviano in qualche modo da esso, in quanto occorre verificare se i primi garantiscano in misura sufficiente gli interessi che il secondo è inteso a proteggere: da una parte la effettività e attualità del consenso del dichiarante, dall’altra parte l’affidamento del destinatario circa la idoneità dei fatti a rappresentare tale effettività e attualità.

È anzitutto chiaro che una dichiarazione volontariamente indirizzata dal dichiarante al destinatario non può mai mancare; né può mancare la conoscenza in capo al destinatario di tale dichiarazione. Secondo le opinioni più accreditate al volontario indirizzamento è equiparata l’apparenza di esso, vuoi ai sensi dell’art. 1433 c.c. quando la condotta risale ad un soggetto incaricato dal dichiarante, vuoi, comunque, sulla base del principio generale di apparenza [17], e sempre che sussista la buona fede del destinatario (sotto forma di ignoranza che l’indirizzamento è avvenuto senza la volontà del dichiarante). Alla effettiva conoscenza, invece, è equiparata la conoscibilità che dipende dall’arrivo della dichiarazione all’indirizzo del destinatario, ai sensi dell’art. 1335 c.c. [18].

5.  Anomalie che possono verificarsi nel processo di trasmissione della dichiarazione.

Se, quindi, i due elementi accennati sussistono (anche nella forma degli elementi ad essi equiparati), la dichiarazione recettizia produce i suoi effetti.

Bisogna, però, chiedersi come influiscano certe vicende cui la dichiarazione può andare soggetta nella fase che si interpone fra l’indirizzamento e la recezione/conoscenza. “Indirizzare” significa imprimere alla dichiarazione una certa direzione; in pratica significa compiere, o predisporre affinché altri compia, una serie di attività in sé astrattamente idonee, senza necessità di altri interventi del dichiarante, a far sì che la dichiarazione pervenga al destinatario o quanto meno al suo indirizzo. Una volta che ciò sia avvenuto, tuttavia, possono sopravvenire circostanze esterne che in qualche modo interrompono o deviano il “naturale” processo predisposto dal dichiarante. Se la sequenza risulta definitivamente interrotta la dichiarazione non perviene al destinatario, ma quando la dichiarazione gli perviene con modalità o attraverso strumenti diversi da quelli predisposti dal dichiarante, e magari affatto anomali o casuali, qualche problema può sorgere.

Il tema viene spesso affrontato ponendosi la domanda, se fra l’indirizzamento e la recezione debba sussistere un rapporto di causalità, nel senso che la recezione debba avvenire proprio attraverso quei mezzi che il dichiarante aveva predisposto, e non possa avvenire attraverso altri mezzi [19]. La risposta è prevalentemente negativa, nel senso che non si esclude che la recezione – o la conoscenza – possa anche conseguirsi aliunde, attraverso mezzi diversi da quelli divisati dal dichiarante, purché non sia mancata, all’origine, una qualche (anche solo apparente) attività di indirizzamento volontario, e salvo che la legge prescriva una forma vincolata di notificazione (ad es., la lettera raccomandata o la notificazione a ministero dell’Ufficiale giudiziario) [20].

6.  Interessi protetti nel processo di trasmissione della dichiarazione, affidamento delle parti e principio di apparenza.

Questa impostazione merita di essere condivisa, sulla base del presupposto che il requisito del volontario indirizzamento è implicito nel concetto stesso della dichiarazione recettizia; quello della conoscenza in capo al destinatario (cui, nel caso dell’art. 1335 c.c., è equiparata la conoscibilità) è stabilito dalla legge; ma la legge non vincola in alcun modo la forma dell’attività che materialmente mette in relazione i due termini [21]. Va, tuttavia, considerato che l’utilizzo di modalità di trasmissione socialmente (o legalmente) tipiche garantisce di per sé la regolarità del procedimento, ma lo stesso non può sempre dirsi in presenza di modalità deviate od anomale. Occorre, quindi, trovare un qualche criterio che assicuri comunque la protezione degli interessi rilevanti: la effettiva ed attuale volontà del dichiarante e l’affidamento del destinatario di buona fede; e che aiuti a decidere, quando è necessario, quale dei due interessi debba prevalere [22].

Le deviazioni dallo schema tipico possono essere di diversa natura, e non tutte sono ugualmente rilevanti. Se esse non sono riconoscibili dal destinatario non hanno alcuna rilevanza [23] (come potrebbe avvenire nel caso del passante che trova ed affida al servizio postale la lettera smarrita: certo la modalità è anomala e imprevista, ma si tratta di circostanza del tutto ininfluente [24]). Le cose cambiano se il destinatario è in condizione di riconoscere l’anomalia [25], come quando il passante, invece di consegnare la lettera smarrita al servizio postale, provvede personalmente al recapito al destinatario, che casualmente conosce ed al quale riferisce la circostanza del ritrovamento. In un caso come questo l’emittente non ha di che dolersi, ma il destinatario si trova in una grave incertezza: la lettera era stata indirizzata volontariamente o era stata perduta prima dell’indirizzamento? Qui il dubbio circa la serietà e attualità della volontà del dichiarante è legittimo, e il problema non è interamente risolto neppure quando il destinatario sa che il volontario indirizzamento vi era stato: in caso di contestazione, infatti, non sembra corretto addossargli l’onere di provare tale circostanza. Occorre, quindi, individuare un qualche criterio oggettivo, che offra alle parti la necessaria certezza [26] senza permettere loro inopportune e maliziose speculazioni.

Il criterio di fondo potrebbe essere quello dell’apparenza, riconoscendo peraltro che non solo l’emittente, ma anche il destinatario dovrebbe essere vincolato agli effetti della dichiarazione pervenutagli in modo anomalo, purché sussista l’oggettiva apparenza del volontario indirizzamento: l’apparenza deve operare, infatti, su entrambi i lati del processo di trasmissione della dichiarazione, fissando la situazione in modo identico nei confronti sia dell’emittente, sia del destinatario e determinando così una equa composizione degli interessi coinvolti; e si tratta, a questo punto, di verificare se i principi in tema di apparenza siano effettivamente richiamabili, e poi eventualmente di stabilire quando una valida apparenza vi sia.

Oggetto di esame sarà l’apparenza dell’indirizzamento volontario della dichiarazione, nella prospettiva di dimostrare che se essa sussiste perde rilievo il problema, se l’indirizzamento volontario vi sia stato effettivamente, oppure no. Il dichiarante può avere formato e sottoscritto la dichiarazione e averla lasciata incustodita sul tavolo del proprio ufficio, ove qualcuno la trova e, interpretando male la volontà dell’autore, la spedisce. In tal caso non vi è alcun “incaricato” della spedizione, il che sembra escludere l’applicabilità dell’art. 1433 c.c. [27]. Come qui si ipotizza, anche sulla scorta dei rilievi di autorevole dottrina, può tuttavia sopperire il principio di apparenza [28]. Interessato, e legittimato, a far valere tale principio sarà il destinatario di buona fede, il quale abbia ragionevolmente confidato che l’invio fosse stato voluto dal dichiarante, ed a tale affidamento abbia ispirato la propria condotta. Se, invece, l’indirizzamento è stato voluto, non sembra sussistere in capo al dichiarante un interesse meritevole di protezione a sottrarsi agli effetti dell’atto, ancorché la dichiarazione (o la conoscenza di essa) sia pervenuta al destinatario con modalità anomale. Sussiste, tuttavia, un interesse del destinatario alla certezza della propria posizione giuridica nei riguardi della dichiarazione; una certezza che può essere messa in discussione proprio dalle anomalie che hanno interessato la trasmissione di essa e possono far sorgere un dubbio circa la conclusione del contratto, e che, al contrario, è assicurata proprio dal prevalere della situazione apparente su quella reale, la quale, per tale ragione, viene resa irrilevante.

7.  Principio di apparenza e volontario indirizzamento della dichiarazione.

Come si sa, il principio di apparenza è enunciato dal codice al fine di salvaguardare gli acquisti compiuti, in buona fede ed a titolo oneroso, da chi ha contrattato con l’erede apparente (art. 534 c.c.); e di assicurare la liberazione del debitore di buona fede che abbia eseguito la prestazione nelle mani di chi, pur non essendo legittimato a riceverla, appariva tale «in base a circostanze univoche» (art. 1189 c.c.). Esso è poi stato esteso, dalla giurisprudenza con il consenso di una dottrina ormai prevalente, anche oltre i casi espressamente previsti, purché alla creazione della fallace apparenza abbia concorso anche il fatto del soggetto contro il quale essa viene invocata [29].

Limitandosi ad alcuni accenni essenziali, si ha apparenza di diritto quando un insieme di fatti univoci (ma anche, è a ritenersi, un singolo fatto purché univoco e decisivo) ha indotto un soggetto ragionevole a credere vera una situazione giuridica che tale non è, purché i fatti fossero astrattamente idonei a indurre in tale credenza qualsiasi soggetto ragionevole che si fosse trovato nelle medesime condizioni [30].

«L’apparenza è un fenomeno sociale e oggettivo» [31], anche se dà luogo ad un errore individuale e soggettivo: per tale ragione si prescinde da ogni valutazione circa la scusabilità dell’errore [32]. Allo stesso modo, non sembra del tutto appropriato affermare che, fuori dei casi espressamente previsti, l’apparenza presuppone una condotta che sia imputabile al controinteressato a titolo di colpa [33]: conta, infatti, solo l’oggettiva correlazione fra l’apparenza ed una condotta, positiva o negativa, di quest’ultimo, che non deve necessariamente qualificarsi come negligente, e tanto meno come dolosa.

Per il resto, è pacifico che ad essere protetto contro la falsa apparenza è solo il terzo di buona fede, concretamente ignaro della falsità, mentre può essere lasciata in disparte la questione, se la buona fede del terzo sia elemento della fattispecie accanto agli indici oggettivi dell’apparenza, o non sia piuttosto la mala fede (conoscenza della falsità) elemento autonomo idoneo a distruggere la stessa apparenza [34].

Quest’ultima produce i propri effetti solo in quanto sussista in concreto in capo ad un terzo una esigenza di tutela fondata sul suo legittimo affidamento: quindi, solo nell’ipotesi in cui il terzo confidando nella situazione apparente abbia tenuto una condotta negoziale che altrimenti non avrebbe tenuto, ovvero comunque abbia avuto pregiudizio per aver confidato di essere investito di una certa situazione giuridica derivata o dipendente da quella apparente; fuori di queste ipotesi il richiamo del principio di apparenza appare inappropriato [35].

L’apparenza del diritto produce effetto nel momento stesso in cui si manifesta, e purché in quel momento sussista la buona fede del terzo che essa è intesa a proteggere; tali effetti, però, una volta avveratisi non sono più nella disponibilità delle parti, ed i rapporti fra loro sono definitivamente fissati nei termini che risultano dalla apparenza. Conseguentemente, non solo la sopravvenuta conoscenza della “vera” realtà non nuoce alla parte protetta, ma neppure può, quest’ultima, avvalersene per mettere in discussione ex post gli effetti già definitivamente avveratisi.

Effetti che possono essere di varia natura, secondo ciò che occorre in concreto per assicurare la protezione del legittimo affidamento di chi abbia agito confidando in una situazione apparente: certe volte si ritiene validamente concluso un contratto (es., rappresentante apparente); altre volte, ad es., il preponente è stato ritenuto responsabile per i danni cagionati dalla condotta illecita del preposto, attuata fuori o dopo la cessazione del rapporto di preposizione [36].

Tutto ciò premesso, non vi è ragione perché tali principi non debbano applicarsi anche all’ipotesi in cui taluno riceva una dichiarazione contrattuale che appaia essergli stata indirizzata, volontariamente e consapevolmente, dall’autore di essa, quando le circostanze e le modalità della trasmissione indicano univocamente (ancorché ingannevolmente) che all’origine della recezione vi è stata, appunto, una iniziativa dell’autore in tal senso: i fatti immediatamente presenti e reali manifestano per illazione o rinvio che nel passato hanno avuto luogo altri fatti, e tali fatti, quelli noti e quelli ricostruiti per illazione, integrano nel loro insieme la fattispecie di una dichiarazione contrattuale inviata dal suo autore e ricevuta dal suo destinatario: alla base vi è una «situazione (“indicata” da un altro fatto) [che] non è direttamente osservata, né rappresentata (simbolizzata) nei suoi elementi costitutivi, bensì è inferita sulla base di una reciproca connessione empirica tra il fatto segnalante e il fatto segnalato» [37].

Per la verità, è diffusa l’opinione che l’espressione “apparenza di diritto” indichi, non solo lessicalmente, una inferenza fra un fatto (segnalante) ed una situazione giuridica (segnalata falsamente come esistente) [38]: la qualità, volta a volta, di erede, di rappresentante, di creditore, di socio e così via; mentre nell’ipotesi che qui si esamina il rapporto di inferenza è fra un fatto (la recezione della dichiarazione con certe modalità) e l’esistenza, erroneamente supposta, di un altro fatto (il volontario indirizzamento della medesima dichiarazione da parte di chi ne è l’autore). Tornano utili, però, le osservazioni di un’altra autorevole dottrina: «L’apparenza (...) è un fatto. Anche ciò che se ne inferisce sarà necessariamente un fatto (ad es.: domicilio apparente); il fenomeno che noi studiamo è l’apparenza di un fatto, non di un diritto (il diritto, mera costruzione del pensiero, non ha visibilità e non appare); ma il fatto interessa per le sue conseguenze giuridiche, e perciò si dice in modo abbreviato che ciò che appare è una situazione giuridica» [39]. Questa opinione merita di essere accolta, con alcune precisazioni. È chiaro che ogni situazione giuridica si fonda su un fatto costitutivo, e che, quindi, dire che un certo diritto “appare” sussistere in capo ad un soggetto significa supporre erroneamente che sia avvenuto un fatto costitutivo di quel diritto. Tale fatto, però, non è sempre necessario che sia precisamente individuato: varii e numerosi, ma alla fine indifferenti, sono i fatti che potrebbero avere dato luogo ad una situazione giuridica apparente: l’affidamento tutelato nasce da quest’ultima, quale che sia il fatto che si ipotizza a suo fondamento. Nell’ipotesi in esame, invece, il rapporto di inferenza intercorre direttamente fra due fatti, di cui uno vero (la recezione) e l’altro solo ragionevolmente supposto (il volontario indirizzamento), senza l’intermediazione di alcuna “situazione giuridica” di cui occorre ipotizzare l’esistenza. Nondimeno, sussiste pur sempre una apparente, generica ma non irrilevante condizione di legittimazione in capo a chi ha materialmente trasmesso la dichiarazione (l’incaricato, vero o apparente), di modo che anche da questo punto di vista l’ipotesi considerata può essere ricondotta al tema in esame.

E resta solo da soggiungere che la condotta rilevante del dichiarante è quella che consiste nell’avere confezionato, sottoscritto e non adeguatamente custodito una dichiarazione contrattuale completa e affidante, immettendo così nel traffico un indice suscettibile di essere messo in circolazione anche contro la volontà dell’autore: il rischio della circolazione non voluta, infatti, deve essere posto a carico di chi lo ha creato [40].

8.  (Segue): i presupposti necessari per l’applicazione del principio di apparenza nella trasmissione della dichiarazione.

Anche quanto ai presupposti oggettivi dell’apparenza nella meteria qui esaminata, devo limitarmi a qualche considerazione generale: la casistica, infatti, può essere estremamente varia nel presentare circostanze rispetto alle quali si pone il dubbio, se costituiscano indicazione “univoca” di una iniziale attività di indirizzamento volontariamente compiuta dal dichiarante.

Dovrebbe essere chiaro, anzitutto (ed è appena il caso di ripetere), che la mala fede (conoscenza) del destinatario non gli consente di invocare l’apparenza, comunque la dichiarazione gli sia pervenuta [41].

A parte ciò, va riconosciuto che è sempre idoneo a creare una valida apparenza il recapito della dichiarazione da parte del servizio postale o di un servizio equivalente (ad es., un corriere): depone in questo senso la considerazione che si tratta della modalità normale per l’invio delle dichiarazioni scritte a distanza. Ci si può chiedere se in siffatte circostanze il dichiarante sia ammesso a provare di non avere voluto la spedizione; a me sembra di no, a pena di smentire il carattere oggettivo dell’apparenza e, in definitiva, di privarla di significato. Né varrebbe addurre che in certi casi l’interessato può impugnare il contratto ai sensi dell’art. 1433 c.c.: egli, infatti, dovrebbe provare la conoscibilità dell’errore nella trasmissione, e quindi che non vi era stata alcuna valida apparenza a tale riguardo.

Sorgono, invece, maggiori incertezze quando la dichiarazione è stata recapitata da un terzo qualsiasi. Ho già accennato che la Corte di cassazione in questo caso addossa al destinatario l’onere di provare che il terzo era stato incaricato dal dichiarante [42]. A me sembra necessaria una distinzione. Se il terzo è stabilmente inserito nella sfera di organizzazione del dichiarante questa prova non è necessaria, ed il destinatario è autorizzato a riferire la dichiarazione al mittente allo stesso modo che se l’avesse ricevuta attraverso il servizio postale: anche l’inoltro tramite un ausiliario, infatti, è una condotta normale idonea a creare l’apparenza. Ed è appena il caso di precisare che il mittente apparente non sarà ammesso a provare il contrario: egli, infatti, risponde della propria organizzazione come di se stesso (e salvo che, naturalmente, avrà facoltà di provare che l’apparenza non era sorta, o che l’errore era riconoscibile o era stato riconosciuto).

Se, invece, il terzo non era riferibile all’organizzazione del mittente occorre valutare le circostanze del caso concreto, le quali possono nel loro insieme concorrere a creare una situazione di apparenza [43]. Suppongasi, ad esempio, che il mittente avesse preventivamente informato l’oblato circa le modalità divisate per il futuro inoltro di una proposta contrattuale; o che sussista fra le parti una prassi in tal senso: se poi la dichiarazione perviene all’oblato nei modi consueti o preannunciati, non dovrà certo quest’ultimo, in caso di controversia, preoccuparsi di dimostrare che il terzo gli aveva consegnato quella particolare dichiarazione su specifico incarico del mittente apparente; dovrà bensì provare che sussiste l’apparenza, ma non la specifica circostanza dell’incarico (se però riesce anche a questo, tanto meglio per lui); ed anche qui, per converso, il mittente non sarà ammesso a provare di non aver dato l’incarico in quanto tale circostanza, se vi è una valida apparenza, è affatto irrilevante.

Che cosa cambia se il proponente viene a sapere dell’accettazione in modo diverso dalla recezione del documento che la contiene? L’accettante potrebbe avergli inviato un telegramma del seguente tenore: «ti informo di avere accettato la tua proposta, ed il relativo documento è a tua disposizione presso il notaio» [44]. Il contratto è concluso nel momento della recezione del telegramma, o nel momento (che potrà essere lungamente differito nel tempo e al limite non arrivare mai) in cui il proponente, recatosi con suo comodo nello studio del notaio, avrà preso diretta cognizione del documento? Ho già accennato sopra la mia convinzione, che la diretta cognizione del documento non è sempre necessaria, e che, quindi, in certi casi tale cognizione può essere acquisita indirettamente, purché con modalità tali da dare luogo ad una valida situazione di apparenza [45]; una situazione, quindi, che sia tale da indurre univocamente, in un destinatario diligente, la convinzione che la dichiarazione gli fosse stata volontariamente indirizzata dal suo autore con lo scopo di dare luogo alla conclusione del contratto; se si guarda la questione dalla angolatura del fatto concludente (pur esso, in definitiva, qualificabile come fatto creatore di una apparenza), occorre che sussistano circostanze che non ammettono altra spiegazione ragionevole, se non quella, appunto, del volontario indirizzamento.

E quindi, anche nel caso della ricezione di una fotocopia, bisogna anzitutto distinguere secondo che essa sia stata consegnata dal mittente ovvero da un terzo. Nel primo caso occorrerà fare riferimento alla qualificazione che il mittente medesimo abbia dato del proprio comportamento [46], ed in difetto dovrà presumersi che la consegna della fotocopia non manifesti una attuale volontà negoziale. Nel secondo caso, la qualificazione dell’atto data dal terzo può non bastare, e occorrerà allora valutare anche la qualificazione personale del terzo medesimo. Come si è già sopra accennato, se vi è la prova di uno specifico incarico, ovvero se il terzo presenta un legame con il mittente che renda credibile il suo ruolo di nuncius, allora una valida apparenza sembra sussistere; altrimenti, chi riceve un documento per opera di un soggetto che non ha alcun legame con l’autore di esso non è autorizzato ad avere alcuna certezza in ordine alla sua effettiva provenienza [47], e quindi gli incomberà l’onere di provare il volontario indirizzamento. Se sussiste quest’ultimo, infatti, la dichiarazione produce i suoi effetti in quanto è integrata la fattispecie legale della effettiva conoscenza ex art. 1334 c.c., e si deve lasciare in disparte ogni considerazione sulla recezione di essa ai sensi dell’art. 1335 c.c.

9.  Considerazioni conclusive.

Tornando, in conclusione, al caso deciso da Cass. n. 17641 del 2012, va rammentato che la fideiussione era stata emessa e indirizzata al destinatario (il creditore dell’ordinante); a tal fine, il documento originale era stato consegnato all’ordinante (che aveva assunto la qualità di nuncius) affinché a sua volta lo consegnasse al proprio creditore; costui aveva (forse maliziosamente) deviato il normale procedimento preordinato dalla banca emittente, ed aveva consegnato solo una fotocopia della fideiussione, restituendo poi l’originale alla banca al fine di far credere, falsamente, che la garanzia non era più necessaria e che, quindi, il contratto non si era perfezionato; il creditore, invece, aveva ritenuto che la consegna della fotocopia desse luogo alla conclusione del contratto ed aveva, su tale presupposto, a sua volta dato corso alla conclusione di un altro contratto con l’ordinante della fideiussione, le cui obbligazioni riteneva in tal modo garantite.

Si confrontano, quindi, due affidamenti entrambi ragionevoli e in astratto meritevoli di protezione; quale deve prevalere? Mi sembra di poter affermare, sulla base delle considerazioni che precedono, che debba prevalere quello del soggetto cui la fideiussione era destinata. Non solo, infatti, sussisteva il volontario indirizzamento della dichiarazione contrattuale, ma di esso sussisteva anche una valida apparenza: la consegna della fotocopia, infatti, era stata fatta dal soggetto che la banca aveva incaricato della trasmissione, diretto interessato al buon fine dell’affare, il che aveva reso tale procedura, pur inconsueta, da una parte credibile agli occhi del destinatario come manifestazione di una volontà negoziale effettiva ed attuale; dall’altra parte, oggettivamente idonea ad assicurare a quest’ultimo la conoscenza della dichiarazione contrattuale e quindi a determinare la conclusione del contratto ai sensi dell’art. 1333, il quale richiede a tal fine, appunto, solo che la proposta sia «[giunta] a conoscenza della parte alla quale è destinata», e che quest’ultima non l’abbia rifiutata in un termine congruo. L’affidamento della banca, invece, quand’anche sussistesse in concreto, era recessivo, essendo il suo erroneo apprezzamento dei fatti dipeso dalla condotta di un soggetto da essa incaricato, ed il rischio di tale condotta non poteva gravare che sulla banca medesima.

Riferimenti bibliografici:

[1] Cass., sez. I, 15 ottobre 2012, n. 17641.

[2] Questo punto è pacifico.

[3] Per la verità il tema che si intende tratteggiare è più complesso di quanto appare dalla sentenza della Suprema Corte, stante che, come più avanti ampiamente si dirà, la fotocopia mette in discussione non solo l’idoneità del documento in sé, ma anche il ruolo dell’utilizzo di esso nella formazione dell’affidamento del destinatario circa l’attualità della volontà negoziale dell’emittente.

[4] Nel caso in esame, oltre tutto, non può escludersi la mala fede del nuncius, il quale era probabilmente interessato a non essere gravato della controgaranzia che la banca quasi certamente aveva preteso da lui prima di rilasciare la fideiussione. La mala fede non risulta dalla sentenza, ma lo svolgersi dei fatti autorizza il sospetto: l’ordinante, infatti, non si era limitato a consegnare la fotocopia al proprio creditore al fine di indurlo nella convinzione che la fideiussione vi fosse, ma aveva restituito l’originale alla banca dichiarando falsamente che la garanzia non era più necessaria. In tal modo aveva indotto la propria controparte ad eseguire il contratto, e al contempo si era probabilmente liberato dal rischio della rivalsa della banca. Il problema della tutela dell’affidamento dell’oblato, poi, sussiste in generale, e non solo nell’ipotesi di un contratto concluso ai sensi dell’art. 1333 c.c. Potrebbe, infatti, accadere che una proposta di contratto bilaterale pervenga al destinatario solo in fotocopia; che questi invii al proponente una regolare accettazione; che infine l’accettante, confidando nella avvenuta conclusione del contratto, dia luogo all’esecuzione. Il proponente pentito o malizioso sarà ammesso incondizionatamente ad eccepire che il contratto non si è mai concluso, in quanto l’accettazione si riferiva ad una proposta che non aveva mai raggiunto la soglia dell’esistenza (o quanto meno dell’efficacia) giuridica?

[5] Dal punto di vista dogmatico, prevale oggi l’idea che la recezione non sia elemento costitutivo della dichiarazione recettizia, ma piuttosto elemento o coelemento da cui dipende la sola sua efficacia. Cfr., ad es., L. CARRARO, voce Dichiarazione recettizia, in Nss. D.I., V, Torino, 1960, 597; A. RAVAZZONI, La formazione del contratto, I, Milano, 1966, 333; A. FALZEA, Fatti di conoscenza, ora in Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, II, Milano, 1997, 566; F. REALMONTE, La dichiarazione contrattuale, in M. Bessone (diretto da), Trattato di diritto privato, Il contratto in generale, t. II, Torino, 2000, 41; M. ORLANDI, La paternità delle scritture, Milano, 1997, 32, nota n. 21. Contra E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, 2a ed., rist. Camerino, 1994; P. Gallo, Contratto e buona fede, Torino, 2009, 232, afferma non esservi dubbio «che se si tratta di dichiarazione recettizia, la fattispecie dichiarativa risulta perfezionata soltanto con la recezione». V. anche, molto recente, U. PERFETTI, La conclusione del contratto, in Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da A. CICU-F. MESSINEO, continuato da L. Mengoni, diretto da P. SCHLESINGER, Milano, 2016, 182. Giampiccolo attribuisce alla recezione il compito di rendere rilevante per il destinatario una dichiarazione che per l’emittente è già perfetta (La dichiarazione recettizia, Milano, 1959, rist. Camerino, 2011, 179 ss.; Id., voce Dichiarazione recettizia, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, 388 s.); P. SCHLESINGER, voce Dichiarazione, in Enc. dir., 379, nota n. 50, osserva che in certi casi la notificazione è necessaria per perfezionare la stessa emissione, in altri casi «la notificazione non rientra nel comportamento dichiarativo, o perché concerne una dichiarazione già emessa, o perché la emissione si conclude col dare impulso alla procedura di notifica, senza abbracciarne l’intero svolgimento». R. SACCO, voce Dichiarazione contrattuale, Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, 2009, 158 s., include nella nozione «l’ingresso dei segni nella sfera del destinatario, in modo che questi li percepisca (o almeno sia messo in grado di percepirli», con la precisazione che in taluni casi (art. 1433 c.c.) il testo recepito può essere diverso dal testo emesso. In via di prima approssimazione, va osservato che non bisogna confondere i problemi definitori con quelli normativi, nel senso che altra cosa è ricercare una definizione astratta della dichiarazione recettizia, altra cosa individuare il trattamento normativo delle varie fasi di cui consta il complesso procedimento che conduce una dichiarazione contrattuale a produrre il proprio effetto tipico. Sembra, in proposito, di poter distinguere due fasi: nella prima sono ricomprese le condotte che competono al dichiarante: formazione del testo, emissione, indirizzamento al destinatario; alla seconda appartiene tutto ciò che avviene nella sfera del destinatario e comunque fuori di quella dell’emittente, e che può non dipendere dalla iniziativa di quest’ultimo. A questa fattispecie complessa a formazione successiva può darsi, credo indifferentemente, il nome di «dichiarazione che comprende in sé la recezione», ovvero di «dichiarazione più recezione»: sempre, infatti, di una fattispecie unica, ancorché complessa, si tratta. È vero che la proposta o l’accettazione, fatte da chi non sia imprenditore, non sopravvivono alla morte o alla sopravvenuta incapacità del loro autore (art. 1330 c.c.; questo argomento è usato per giustificare l’affermazione che la recezione è estranea alla fattispecie): ma ciò vuole solo dire che in tali circostanze la fattispecie non può più perfezionarsi. In termini di fattispecie complessa si esprimono, ad esempio, E. FERRERO, voce Dichiarazione recettizia, in Dig. disc. priv., sez. civ., V, Torino, 1989, 356; e O. PROSPERI, Forme complementari e atto recettizio, in Riv. dir. comm., 1976, I, 224.

[6] Richiamo qui le considerazioni già svolte in un’altra occasione: F. VENOSTA, Profili del neoformalismo negoziale: requisiti formali diversi dalla semplice scrittura, in Obbl. e contr., 2008, 878 ss. Cfr. Cass. 9 gennaio 2013, n. 349; Cass., sez. lav., 20 marzo 2009, n. 6911; Cass. 14 giugno 2007, n. 13916, in Giust. civ., 2008, I, 1767.

[7] U. BRECCIA, La forma, in V. ROPPO (diretto da), Trattato del contratto, I, Milano, 2006, 565: «un documento privo di sottoscrizione, quand’anche non abbia l’identità giuridica di una scrittura privata, può dunque essere a questa equiparata negli effetti»; Cfr. V. ROPPO, Il contratto, 2a ed., Milano, 2011, 224: secondo questo Scrittore «il telegramma non firmato di pugno nell’originale è dichiarazione contrattuale idonea a concludere un contratto non formale, e può fare prova del contratto stesso; non può invece concludere un contratto vincolato alla forma scritta (...)» (conf. A. RUOTOLO, ne Il documento, in P. Perlingieri (diretto da), Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del notariato, Napoli, 2003, 243 s.); P. GALLO, Contratto e buona fede, cit., 239; Id., Trattato del contratto, 1, Torino, 2010, 602. Sacco (in R. SACCO-G. DE NOVA, Il contratto, 3a ed., Torino, 2004, t. 1, 703 ss.) sostiene che l’equiparazione del telegramma alla scrittura privata opera solo sul piano probatorio, e non anche sul piano sostanziale. I giudici, peraltro, hanno avuto numerose occasioni per riconoscere l’efficacia sostanziale del telegramma: Cass. 25 settembre 2014, n. 20167; Cass. 20 giugno 2011, n. 13488; Cass. 24 novembre 2004, n. 22133; Cass., sez. lav., 30 ottobre 2000, n. 14297; Cass. 27 luglio 2001, n. 10284; Cass. 3 luglio 1990, n. 6788, in Giur. it., 1991, I, 1, 179: «l’art. 2705, comma 1, c.c. riconosce (...) a fatti, che sono diversi dalla sottoscrizione, la stessa idoneità di questa a fungere da presupposto per la riferibilità del telegramma al suo apparente autore» (in motivazione); Trib. Roma 6 giugno 2014, n. 12481, in Iusexplorer; Trib. Roma 23 settembre 2010, n. 18884, ibidem; Trib. Monza 1° luglio 2002, ibidem. Un esame particolarmente ampio del tema è stato compiuto da M. Orlandi, La paternità delle scritture, cit., 425 ss., ove la conclusione che «ogni scrittura per trasmissione di impulsi [è] idonea all’imputazione, indipendentemente dalla firma, e [può] essa servire anche ad un contratto, per il quale sia richiesta una forma ad substantiam» (p. 473).

[8] Cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 26 aprile 2013, n. 2189, in Foro amm.-TAR, 2013, 1308; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 7 marzo 2012, n. 728, in Iusexplorer; Id., 3 marzo 2010, n. 501, in Foro amm-TAR, 2010, 756. In senso parzialmente diverso TAR Puglia, Bari, sez. I, 8 agosto 2000, n. 3480, in Iusexplorer: la procura per presentare la domanda di partecipazione alla gara era stata depositata solo in fotocopia, ed il TAR ha ritenuto che ciò non consentisse l’esclusione del concorrente dalla gara, sul presupposto che l’amministrazione, in caso di dubbio, poteva ben chiedere l’esibizione dell’originale.

[9] Cass. 18 maggio 2015, n. 10171, in Giur. it., 2015, 1581.

[10] Cass. 30 giugno 2014, n. 14808: il rappresentante aveva avuto notizia della procura attraverso la consegna di una fotocopia.

[11] Cass. 9 novembre 2014, n. 25923, in Contratti, 2015, 991, con nota di commento di F. TOSCHI VESPASIANI. Trib. Roma 1 luglio 2002, in Iusexplorer, ha affermato incidenter tantum che il contratto può concludersi anche «mediante comunicazione scritta che informi dell’avvenuta accettazione, pur senza allegare il testo letterale di quest’ultima».

[12] Trib. Reggio Emilia 14 marzo 2013, in Corr. giur., 2014, 63, con nota parzialmente (e giustamente) critica di PIROVANO. In senso analogo, ma con motivazione più perspicua, Trib. Milano 12 novembre 2013, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, 854, con nota di TARANTINO. Sul tema possono ora leggersi ben quattro sentenze di merito, diversamente orientate, pubblicate in Banca borsa tit. cred., 2016, II, 16, con nota di CATALANO, Contratti solenni, forma scritta ad substantiam in funzione protettiva ed equipollenti della sottoscrizione: note critiche.

[13] Il problema è individuato in modo chiarissimo anche da U. PERFETTI, La conclusione del contratto, cit., 182: «accanto all’esigenza di tutela della posizione del (presunto) proponente, sussiste quella concorrente di protezione dell’affidamento che il destinatario della dichiarazione ha eventualmente riposto sul fatto della volontarietà dell’indirizzamento».

[14] Ne descrive bensì alcune, come l’invio del telegramma o, più recentemente, le modalità telematiche; detta anche disposizioni relative a specifici rapporti, come la subfornitura (art. 1, comma 1, l. n. 192 del 1998); ma non dà indicazioni generali su come precisamente debbano avere luogo l’indirizzamento e la recezione.

[15] Salvo che per la donazione l’art. 782, comma 2, c.c., stabilisce che «l’accettazione può essere fatta nell’atto stesso o con atto pubblico posteriore. In questo caso la donazione non è perfetta se non dal momento in cui l’atto di accettazione è notificato al donante». In proposito, è opinione corrente che trattisi di notificazione in senso tecnico (fatta, cioè, a ministero dell’ufficiale giudiziario e nelle forme previste dal codice di procedura civile), e che di essa non siano ammessi equipollenti: Cass., sez. un., 24 novembre 1988, n. 6481, in Giur. it., 1989, I, 1, 1552, con nota di C. CACCAVALE, Un problema di forma: “struttura” e “funzione” della notifica nella donazione; Cass. 14 settembre 1991, n. 9611, ivi, 1992, I, 1, 235. Cfr. in dottrina M. DOSSETTI, Il consenso e la sua formazione, in G. Bonilini (diretto da), Trattato di diritto delle successioni e donazioni, VI, Le donazioni, Milano, 2009, 652 ss.; P. GALLO, Formazione del consenso, in A. Palazzo (a cura di), I contratti di donazione, Torino, 2009, 28 ss.; F. SPOTTI, Sub art. 782, in G. BONILINI (a cura di), Commentario del codice civile, Le successioni, Torino, 2014; B. Biondi, Le donazioni, in F. VASSALLI (diretto da), Trattato di diritto civile italiano, Torino, 1961, 472 ss.; A. Torrente, La donazione, in A. CICU-F. MESSINEO (diretto da), Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1956, 438 ss. Si discute, peraltro, se la formale notificazione possa essere sostituita dal personale intervento del donante all’atto pubblico di accettazione; mentre Caccavale, nella nota citata, argomenta che in generale «la notifica in senso tecnico sia superflua ove il donante abbia ricevuto effettiva conoscenza dell’accettazione».

[16] Il testo non sottoscritto, infatti, a parte le ipotesi legalmente tipiche del telegramma e del messaggio telematico, non è neppure una dichiarazione dal punto di vista giuridico; mentre si può trascurare qui l’ipotesi della dichiarazione orale.

[17] Cfr. R. SACCO, voce Dichiarazione contrattuale, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, Torino, 2009, 163 ss.

[18] Che l’art. 1335 c.c. non ponga una vera e propria presunzione di conoscenza, ma equipari a quest’ultima la mera conoscibilità (salva la prova dell’impossibilità non colpevole) è affermato ormai dalla prevalente dottrina: G. GIAMPICCOLO, La dichiarazione recettizia, cit., 316; R. SACCO, voce Dichiarazione contrattuale (arrivo e conoscenza della), in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, Torino, 2009, 183; A. RAVAZZONI, La formazione del contratto , cit., 321 ss.; V. ROPPO, Il contratto, cit., 104; A. D’Angelo, Proposta e accettazione, in V. ROPPO (diretto da), Trattato del contratto, cit., I, 113.

[19] Può anche accadere che il dichiarante predisponga per errore l’invio attraverso un mezzo intrinsecamente inidoneo, ma che la dichiarazione giunga ugualmente, per fortunata combinazione, al destinatario.

[20] G. GIAMPICCOLO, voce Dichiarazione, cit., 387; ID., La dichiarazione recettizia, cit., 160 ss., 361 ss.; R. SACCO, voce Dichiarazione contrattuale, in Dig. disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, 2009, 195; R. BONSIGNORE, voce Recezione della dichiarazione, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, 323; E. FERRERO, voce Dichiarazione recettizia, in Dig. disc. priv., sez. civ., V, Torino, 1989, 360; F. REALMONTE, La dichiarazione contrattuale, cit., 42 ss.; A. D’ANGELO, Proposta e accettazione, cit., 116 s.; P. GALLO, Contratto e buona fede, cit., 241. Anche la giurisprudenza offre utili indicazioni. Cass. 9 dicembre 2014, n. 25923, ha statuito che «il contratto si deve ritenere ugualmente concluso quando, pur non essendo stata l’accettazione indirizzata al proponente, questi ne abbia comunque avuto conoscenza» (l’accettazione era stata comunicata ad un’agenzia immobiliare affinché la inoltrasse al destinatario). In generale, i giudici non sono propensi a dare gran peso alle modalità della recezione (o della presa di conoscenza), purché esse mostrino chiaramente la volontarietà dell’indirizzamento, ovvero comunque vi sia la prova di tale circostanza. Cfr., in proposito, Cass. 25 ottobre 1978, n. 4833, in Giust. civ., 1979, I, 673: il pervenire a conoscenza di cui all’art. 1335 c.c. è «espressione generica e omnicomprensiva che, trascurando qualsiasi precisazione sulla fonte della conoscenza, sembra chiaramente escludere l’esigenza di una comunicazione diretta (...)» (in motivazione); ed ancora, «la legge non prescrive le modalità e le attività mediante le quali [la dichiarazione] dev’essere trasmessa, purché tale trasmissione avvenga all’indirizzo del destinatario e purché le modalità utilizzate e le attività impiegate siano tali da dimostrare la volontà del dichiarante di portare la dichiarazione a conoscenza del destinatario» (Cass., sez. un., 5 novembre 1981, n. 5823 (in motivazione), in Giur. it., 1983, I, 1, 1734 con nota di COSTANZA; cfr. anche Cass. 3 luglio 1990, n. 6788, ivi, 1991, I, 1, 179); sul presupposto che l’art. 1335 c.c. non esclude modalità di conoscenza diverse da quelle ivi indicate, si è più volte affermato che basta l’esibizione della dichiarazione al destinatario, e addirittura la mera comunicazione dell’avvenuto inoltro della dichiarazione (v., variamente, Cass. 1 settembre 1997, n. 8328, in un caso in cui la dichiarazione era stata solo esibita al destinatario; Cass. 12 luglio 2011, n. 15293, in Contratti, 2012, 369, con nota critica di Schiesaro: «nei contratti che necessitano della forma scritta per la loro validità, l’accettazione della proposta può giungere al proponente non soltanto attraverso la consegna di un documento che la contenga, ma anche in altra forma – come, ad esempio, a mezzo telefono – in quanto la comunicazione dell’accettazione non richiede, di per sé, la forma scritta: basta la prova certa dell’avvenuta comunicazione»; Cass. 16 aprile 2003, n. 6105, in un caso in cui l’Ufficiale giudiziario non aveva regolarmente notificato il documento della dichiarazione, ma a quanto pare l’aveva esibito al fratello del destinatario, in quale ne aveva poi data comunicazione all’interessato per telefono; Cass. 30 giugno 2014, n. 14808; Cass. n. 25923 del 2014, cit.). Un principio analogo viene affermato in tema di comportamento concludente, il quale, «ove, in concreto, debba produrre effetti giuridici nei confronti della controparte, deve da questa essere percepibile come tale, id est deve essere rivolto alla stessa od essere dalla stessa comunque immediatamente e direttamente apprezzabile quale equivoca manifestazione di volontà (...)» (Cass. 17 novembre 2003, n. 17340, in Giust. civ., 2004, I, 1305). Ed infine, la S.C. ha più volte affermato che la trasmissione della dichiarazione da parte di un terzo non è sempre sufficiente a dare la certezza che l’indirizzamento è stato voluto dal dichiarante, di modo che tale circostanza deve essere provata da chi intenda avvalersene [Cass. 3 luglio 1990, n. 6788, in Giur. it., 1991, I, 1, 179; Cass. 14 luglio 2011, n. 15510: «la volontà del proponente di impegnarsi contrattualmente (...) mentre è di norma implicitamente desumibile dal fatto che il proponente abbia indirizzato al destinatario un atto (...), deve, invece, essere concretamente accertata ove la proposta sia pervenuta al destinatario tramite un terzo, in particolare dovendosi verificare se la trasmissione dell’atto sia avvenuta ad iniziativa di chi ha formato il documento ovvero del terzo, all’insaputa di quello»].

[21] Talvolta questo profilo viene sovrapposto a quello della forma del contratto, di modo che si sostiene che se il contratto è formale la consegna della dichiarazione al destinatario (ovvero al suo indirizzo) è sempre necessaria. La sovrapposizione dei due profili, tuttavia, mi sembra inappropriata: altra cosa, infatti, è la forma della dichiarazione, altra cosa la forma della sua trasmissione. Se vi è una dichiarazione scritta il vincolo di forma è rispettato, a prescindere dal modo in cui tale documento viene portato a conoscenza del destinatario. Un qualche vincolo di forma per la trasmissione potrebbe pur esservi, ma non è implicito nella forma, che la legge eventualmente richieda per la dichiarazione in sé.

[22] Il problema si pone in concreto solo quando il dichiarante si avvale dell’opera di terzi (un messo, un nuncius, il servizio postale, un corriere; si può discutere se sia “terzo” l’ausiliario stabilmente inserito nell’organizzazione del dichiarante), ovvero comunque quando un terzo si interpone tra il dichiarante e il destinatario (ad es., il passante che trovata per strada una busta affrancata la spedisce); il che, peraltro, avviene sempre nei casi di trasmissione a distanza, stante che i documenti non possono viaggiare per telecinesi ma occorre che qualcuno li trasporti a destinazione (e lasciando in disparte, naturalmente, la trasmissione a distanza per mezzo del computer o del telefax, in cui le questioni si atteggiano in modo diverso). Cfr. R. DI RAIMO, Sub art. 1433, in E. Gabrielli (diretto da), Commentario del codice civile, Dei contratti in generale, a cura di E. NAVARRETTA-A. ORESTANO, Torino, 2011, 141.

[23] U. PERFETTI, La conclusione del contratto, cit., 187: «ciò che va esaminato è il comportamento del dichiarante in grado di essere percepito dal destinatario».

[24] Un caso speculare è stato deciso in modo condivisibile da Cass. 5 febbraio 2015, n. 2070, in Foro it., 2015, 2053: un soggetto aveva convenuto con le Poste che la corrispondenza indirizzatagli fosse trattenuta a sua disposizione in una casella postale; un diniego di rinnovo di un contratto di locazione gli era stato indirizzato dal locatore alla sua abitazione, ma le Poste lo avevano trattenuto nella casella in conformità alle sue istruzioni; strumentalmente, egli aveva però contestato che il diniego gli fosse regolarmente prevenuto alla stregua degli artt. 1334 e 1335 c.c. in quanto la casella postale non era il suo “indirizzo”; la Corte ha giustamente respinto una siffatta contestazione, affermando fra l’altro che ciò «avviene naturalmente, del tutto legittimamente, all’insaputa del mittente, giacché accordarsi con l’ente poste affinché non recapiti la corrispondenza presso il luogo indicato in essa come l’indirizzo del destinatario, ma trattenga la corrispondenza, se è vero che realizza un’alterazione del procedimento di trasmissione della corrispondenza supposto dal mittente, lo fa determinando una modifica dell’indirizzo come luogo di pervenimento, e, quindi, di consegna della corrispondenza, che concerne esclusivamente la sfera del destinatario (...)».

[25] Cfr. U. PERFETTI, La conclusione del contratto, cit., 183.

[26] Una “guida sicura”: R. MOSCHELLA, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, Milano, 1973, 48.

[27] L’applicazione dell’art. 1433 sembra essere esclusa in radice da U. PERFETTI, La conclusione del contratto, cit., 184.

[28]  Supra, nota n. 17. Cfr. però R. SACCO, Il fatto, l’atto, il negozio, in R. SACCO (diretto da), Trattato di diritto civile, Torino, 2005, 429: l’autore sarebbe vincolato non perché la dichiarazione è apparente, ma perché è vera e reale dichiarazione, sul presupposto che «la sua esistenza si valuta con riguardo alla fase della recezione».

[29] Non è il caso di diffondersi qui, oltre lo stretto necessario, nell’illustrazione della storia e del contenuto del principio di apparenza; ed anche i richiami dottrinarii possono essere limitati a quelli fondamentali: M. D’AMELIO, voce Apparenza del diritto, in Nss. D.I., I, 1, Torino, s.d., 714; A. FALZEA, voce Apparenza, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 682; L. MENGONI, Gli acquisti “a non domino”, 3a ed., rist. Milano, 1994, part. 343 ss.; R. SACCO, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 58 ss., 222 ss., 370 s., 427 ss.; ID., voce Apparenza, in Dig. disc. priv., sez. civ., I, Torino, 1987, 353; M. BESSONE-M. DI PAOLO, voce Apparenza, in Enc. giur, Roma, 1988, II; R. MOSCHELLA, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit.; F. GALGANO, Sul principio generale di apparenza del diritto, in Contr. e impr., 2009, 1137; G. STOLFI, In tema di apparenza giuridica, in Riv. dir. civ., 1974, II, 107; ID., Note minime sull’apparenza del diritto, in Giur. it., 1976, I, 1, 797. Cfr. anche A. RICCIO, La tendenza generalizzatrice del principio dell’apparenza del diritto, in Contr. e impr., 2003, 520; M. Perreca, Note sull’apparenza del diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, 297; R. PENNAZIO, Apparenza e obbligazioni “propter rem”, ivi, 2005, 988; V. DI GREGORIO, La rappresentanza apparente, Padova, 1996.

[30] L’univocità dei fatti fondativi dell’apparenza non esclude l’esistenza di altri fatti, ignoti, che se noti distruggerebbero l’apparenza; così, infatti, R. SACCO, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 64: «dire che qualche cosa appare, pur non esistendo, significa dire che da alcuni elementi più facilmente accessibili si ricaverebbe che essa esiste, mentre dall’insieme di tutti i dati disponibili si ricava che essa non esiste». In altre parole, il giudizio di univocità ha ad oggetto i soli fatti noti o agevolmente accertabili (ad esempio, attraverso forme di pubblicità) dal soggetto protetto.

[31] L. MENGONI, Gli acquisti “a non domino”, cit., 343; cfr. anche A. FALZEA, voce Apparenza, cit., 692.

[32] Così, ancora L. MENGONI, Gli acquisti “a non domino”,cit., 345: «il giudizio di riconoscibilità della situazione giuridica reale è un giudizio negativo dell’apparenza di diritto, non un giudizio di inescusabilità della buona fede: esso esclude la tutela del terzo non perché l’errore in cui è caduto è imputabile a negligenza, ma perché manca il presupposto oggettivo della tutela, costituito dall’astratto affidamento della generalità».

[33] Di “apparenza colposa o dolosa”, come distinta dalla “apparenza pura”, discorre A. FALZEA, voce Apparenza, cit., 698 ss.; cfr. anche R. Sacco, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 223 ss., 370 s.; M. BESSONE-M. DI PAOLO, voce Apparenza, cit., 3; A. RICCIO, La tendenza generalizzatrice del principio dell’apparenza del diritto, cit., 529, e giurisprudenza ivi citata (da ult., v. Cass. 27 gennaio 2015, n. 1451).

[34] Cfr. R. MOSCHELLA, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., 71.

[35] È questa la vera ratio, non perfettamente intesa da alcuni commentatori, di Cass., sez. un., 8 aprile 2002, n. 5035. L’amministratore di un condominio aveva agito per le spese contro un condomino moroso, il quale, tuttavia, condomino non era più avendo alienato l’immobile, pur avendo seguitato a condursi come tale dando luogo ad una “apparenza” di proprietà. In entrambi i giudizi di merito aveva prevalso la tesi del condominio, che aveva fondato sull’apparenza creata dall’interessato la legittimazione passiva del medesimo. Le sez. un. hanno, invece, affermato la legittimazione passiva del vero proprietario, sul presupposto che il principio di apparenza può venire in considerazione solo «in presenza dell’esigenza di tutelare il terzo in buona fede in ordine alla corrispondenza fra la situazione apparente e quella reale». Mentre «nel caso in esame, è da escludere la necessità, ai fini della tutela della buona fede del condominio, di collegare effetti giuridici ad una situazione apparente, come avviene nelle ipotesi di applicazione del principio di apparenza del diritto, dove, in mancanza di tale collegamento, il terzo incolpevole non vedrebbe sorgere il rapporto sulla cui esistenza e validità aveva senza sua colpa confidato, perché il rapporto giuridico tra il condominio e il singolo condomino, proprietario esclusivo di unità immobiliari, esiste in ogni caso nella realtà». Queste considerazioni sono perspicue: il condominio ha comunque di fronte a sé un proprietario (con la correlativa garanzia patrimoniale) obbligato per le spese, e solo deve individuarlo; l’erronea individuazione non ha cagionato alcun pregiudizio al condominio, il quale mantiene l’azione contro il vero proprietario, se non in relazione alle spese di causa inutilmente sostenute (ed opportunamente le S.U. hanno compensato le spese dell’intero giudizio). Ha un ruolo ancillare, invece, quell’altra parte della motivazione, nella quale si mette in rilievo che il principio di apparenza protegge il terzo di buona fede, mentre «il condominio non è terzo ma una parte del rapporto». Affermazione, questa, fra l’altro discutibile, in quanto l’ordinamento conosce altri casi in cui una parte è protetta contro una falsa apparenza creata dall’altra parte: cfr. ad es., l’art. 1264 c.c. in tema di efficacia della cessione del credito riguardo al debitore ceduto, il quale, se è in buona fede, è liberato quando ha pagato al cedente prima della notifica della cessione. Ed inoltre, a tutto voler concedere, il condomino che ha venduto non ha più alcun rapporto giuridico con il condominio.

[36] Cass. 4 novembre 2014, n. 23448; Cass. 7 aprile 2006, n. 8229, in Giust. civ., 2007, I, 1996.

[37] L. MENGONI, Gli acquisti “a non domino”, cit., 343.

[38] Cfr., ad es., A. FALZEA, voce Apparenza, cit., 685: «Concorda la dottrina in linea di principio nel considerare l’apparenza come relativa ad una situazione giuridica e più particolarmente a un diritto soggettivo: si parla, appunto, di apparenza giuridica, di apparenza del diritto, di apparenza della situazione giuridica».

[39] R. SACCO, Il fatto, l’atto, il negozio, cit., 65; così, invece, R. MOSCHELLA, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., 65: «la fattispecie dell’apparenza è estranea alla fattispecie della realtà, non solo nel senso che i fatti che la costituiscono non coincidono con i fatti che integrano la fattispecie della realtà, ma anche nel senso che essi non consentono alcuna illazione in ordine all’esistenza di questi fatti, che non passi attraverso la illazione stessa dell’esistenza della situazione giuridica, della quale essi costituiscono la causa».

[40] Cfr. anche U. PERFETTI, La conclusione del contratto, cit., 188: «il rischio della (...) circolazione invito domino è riconducibile a tale atto di volontà di cui non sono stati colpevolmente sterilizzati gli effetti nell’unico modo possibile e cioè non sottoscrivendo una dichiarazione che non era destinata (ancora) a essere indirizzata/emessa». Se la sottoscrizione non vi è stata, invece, è ovvio che tali principii non si applicano, in quanto una dichiarazione non sottoscritta non è affidante, mentre una dichiarazione con sottoscrizione falsa può essere affidante ma non è imputabile all’apparente autore.

[41] La ripartizione dell’onere della prova dell’elemento soggettivo dipende dal concreto atteggiarsi della controversia, secondo, cioè, che sia la buona fede fatto costitutivo della pretesa dedotta in giudizio, ovvero sia la mala fede fatto impeditivo.

[42]  Supra, nota n. 20.

[43] Così U. PERFETTI, La conclusione del contratto, cit., 186: se «il destinatario avesse fatto affidamento sull’esistenza di una volontà conforme, omettendo qualsiasi verifica sull’appartenenza del terzo all’organizzazione del dichiarante, o sull’esistenza di rapporti in grado di giustificare, almeno prima facie, la ragione di tale provenienza, si potrebbe rimproverargli scarsa diligenza, tale da escludere la proteggibilità dell’affidamento».

[44] È noto un caso in cui il telegramma, con cui si dava notizia dell’accettazione, era stato inviato al proponente da una agenzia immobiliare, cui l’accettazione era stata recapitata (v. supra, nota n. 18). Il proponente, quindi, aveva avuto notizia dell’accettazione per opera di un terzo.

[45] E d’altra parte, si è anche già riferito che è diffusa in giurisprudenza l’affermazione che l’arrivo del documento all’indirizzo del destinatario, di cui all’art. 1335 c.c., non è l’unico modo attraverso il quale può conseguirsi quella conoscenza, che condiziona la capacità della dichiarazione recettizia di produrre i suoi effetti.

[46] Lo stesso vale se il documento viene recapitato, ad esempio, dal servizio postale accompagnato da un atto di qualificazione riconducibile al mittente (ad es., “troverai qui allegata la mia accettazione”, ovvero “una fotocopia della mia accettazione...”).

[47] Si potrebbe ipotizzare una diversa soluzione nel caso della consegna, da parte del terzo estraneo, del documento originale, in quanto la disponibilità di esso potrebbe costituire un valido indice di apparenza del volontario indirizzamento; e tuttavia, come si è già sopra riferito, si tende in giurisprudenza a ritenere che tocchi anche in tal caso al destinatario provare che il terzo aveva agito per incarico del mittente: se tale affermazione è fondata, ne consegue che non vi è alcuna differenza, secondo che il terzo abbia consegnato una fotocopia piuttosto che l’originale.